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Per un’anatomia dell’Impero

Un approccio ‘letterario’ a Impero di Negri-Hardt

Paolo Lago

Per svolgere questa breve “anatomia dell’Impero” vorrei partire da una mossa critica paradossale, cioè considerare il libro Impero di Michael Hardt e Antonio Negri (trad. it. Milano, 2002; Empire, Harvard University Press, 2000) alla stregua di un’opera letteraria. Tutti sappiamo che esistono delle norme che delimitano chiaramente la sfera della letteratura da quella della saggistica, la sfera del romanzo da quella del saggio critico. Ma queste norme non sono rigidissime né invalicabili: il genere ibrido del ‘romanzo-saggio’ lo dimostra in modo autorevole. Infatti, come ci suggerisce il critico letterario francese Gerard Genette, esistono due “regimi letterari” (in sostanza, due formae mentis per accostarsi all’oggetto letterario): un “regime costitutivo”, cioè chiuso, ed un “regime condizionale”, cioè aperto, revocabile. Attenendosi a questo secondo “regime” – continua Genette – ad esempio, anche un’opera come i Pensieri di Pascal può essere inclusa nella letteratura1 [1]. La mia mossa critica paradossale, perciò, nasce all’interno del “regime condizionale”: secondo quest’ultimo, anche Impero può essere considerato un’opera letteraria. So che questo assunto può apparire un po’ assurdo e, appunto, paradossale ma, ora e in seguito, mi sia concesso di attenermici.

Comincerò con l’analizzare una caratteristica strutturale che spesso si può riscontrare in un oggetto letterario, l’intertestualità: con questo termine (che dobbiamo alla studiosa bulgara naturalizzata francese Julia Kristeva) si intende la compresenza di una o più opere all’interno di un’altra opera. Anche Impero presenta un’indubbia facies intertestuale. Come afferma Maria Turchetto, il libro di Negri-Hardt “funziona come un ipertesto”2 [1], cioè come un’opera costruita su uno o più “ipotesti” (per utilizzare ancora la terminologia genettiana). Innanzitutto, il suo carattere intertestuale è ravvisabile morfologicamente, ad un livello strutturale, se prendiamo in considerazione le numerose citazioni poste in epigrafe di cui esso è costellata. Infatti, se sfogliamo Impero, non incontriamo delle epigrafi soltanto all’inizio dell’opera, ma all’inizio di tutti i capitoli: tali citazioni spaziano da Tacito a Cecil Rhodes, da Foucault a Debord, da Melville a Céline. L’epigrafe, a livello di “soglia”, cioè, secondo la definizione di Genette, di confine strutturale del testo3 [1], funziona come un importante segnale intertestuale, funziona come un volontario rimando, da parte dell’autore, ad una determinata opera e a un determinato concetto. Se le epigrafi sono tante (e l’epigrafare è un atto che gode di un’estrema libertà), disseminate ad ogni soglia testuale, i segnali si moltiplicano e si confondono; si crea una sorta di corto circuito per cui tutti questi segnali si sovrappongono e si annullano a vicenda, realizzando una sorta di shock sensoriale nella percezione del lettore. Impero, quindi, già a livello epidermico, si presenta come una congerie iperbolica di citazioni, offrendo ad ogni capitolo porzioni di altri libri che funzionano come segnali.

La facies intertestuale dell’opera è ravvisabile anche e soprattutto all’interno del testo propriamente detto. Gran parte dei concetti esposti in Impero poggiano sulle opere di Michel Foucault e di Deleuze-Guattari, a cominciare dal termine foucaultiano di “biopotere” (il capitolo II della prima parte si intitola non a caso La produzione biopolitica, con tanto di epigrafe da Foucault). Ma c’è di più: l’incipit del capitolo III, sempre della prima parte – “flirtando con Hegel” – è tratto da un poscritto (del 24 gennaio 1873) al Capitale di Marx. Operando pressoché una citazione da Marx, gli autori palesano quale ipotesto gioca un ruolo fondamentale nella costruzione della loro opera, il Capitale appunto. Sono diversi i testi utilizzati per creare l’intelaiatura di Impero, anche per criticarli: è il caso dei postcolonial studies e dei cultural studies (per cui si veda soprattutto il capitolo IV della parte II). Inoltre, il modello imperiale proposto dagli autori è costruito sulla descrizione dell’impero romano offerta da Polibio nelle Storie. E vi sono anche rimandi alla letteratura: si può ricordare il paragrafo intitolato Contagio, dedicato a Céline, e quello intitolato Rifiuto, dedicato a libri di Coetzee e di Melville (entrambi questi paragrafi sono stampati tramite una diversa tipologia di caratteri, con una precisa funzione semantica: su tale diversità tipografica torneremo più ampiamente in seguito).

La tessitura affabulatoria di Impero, costruita su un così articolato piedistallo intertestuale, a mio avviso, possiede un’ambiziosa aspirazione: quella, cioè, di essere un’opera onnicomprensiva, un’opera che, in sé, possiede una multiforme visione del mondo. Il libro, nella quarta di copertina dell’edizione italiana, viene infatti definito, calcando forse un po’ troppo la mano, “la Bibbia del nuovo movimento”4 [1]. La Bibbia, come si sa, è una delle opere ‘enciclopediche’ per eccellenza, anzi, quasi l’archetipo dell’enciclopedismo5 [1]. Comunque, Impero può esser meglio definito come un'”opera mondo”; tale definizione viene applicata da Franco Moretti ad alcune opere letterarie che, rispetto alla “forma-romanzo”, hanno un’ambizione molto più vasta, a livello sociale e geografico: “un’ambizione planetaria, di cui il Faust è l’archetipo indiscusso”6 [1]. Mentre il romanzo tradizionale appare legato all’istituzione dello ‘stato-nazione’, le “opere mondo”, come dice la parola stessa, hanno un’espansione territoriale più vasta, legata all’intero mondo (ad esempio, due “opere mondo”, secondo Moretti, sono l’Ulisse di Joyce e Cent’anni di solitudine di Garcia Marquez). Tale espansione non si limita ad un livello puramente geografico, in relazione agli avvenimenti della storia narrata. Il “mondo” è presente a più livelli: affabulatorio, intertestuale, sociale, politico ecc. Seguendo sempre la mia mossa critica paradossale considererò Impero – che non è un romanzo – come un'”opera mondo”. Una dicotomia fondamentale attraversa il libro nella visione critica di Negri e Hardt: quella tra stato-nazione e Impero, che implica una fondamentale differenza tra due tipi di sovranità: la prima legata al concetto di ‘confine’, di chiusura, di guerra di espansione; la seconda costruita sull’apertura, sull’abolizione delle differenze e delle frontiere, su un’idea immanente di pace (cfr. p. 171). In sostanza, la prima moderna, la seconda postmoderna. Ecco, la stessa struttura del libro riflette il modello imperiale postmoderno, nel suo tendere ad una ossessiva, eccessiva, e in definitiva ingannevole, apertura. Impero è un'”opera mondo” perché sul piano formale e contenutistico rispecchia l’indefinibile varietà dell’Impero, del mondo globalizzato, opponendosi alla forma ‘chiusa’ e chiaramente delineata dello stato-nazione.

Già nella prefazione gli autori palesano la loro intenzione di costruire un'”opera mondo”, un libro multiforme, senza inizio, centro e fine rigidamente determinati; così leggiamo a p. 14: “Al contrario dell’imperialismo, l’Impero non stabilisce alcun centro di potere e non poggia su confini e barriere fisse. Si tratta di un apparato di potere decentrato e deterritorializzante che progressivamente incorpora l’intero spazio mondiale all’interno delle sue frontiere aperte e in continua espansione”. Sempre nella prefazione, a p. 17 leggiamo: “Scrivendo questo libro abbiamo cercato, per quanto possibile, di utilizzare un ampio approccio interdisciplinare. Le nostre argomentazioni intendono essere, a un tempo, filosofiche e storiche, culturali ed economiche, politiche e antropologiche. Il nostro oggetto di analisi, peraltro, esige questa ampia interdisciplinarietà dato che, nell’Impero, le distinzioni che in passato potevano giustificare approcci rigidamente disciplinari stanno progressivamente venendo meno”. L’oggetto di analisi esige una certa forma, esige l’interdisciplinarietà: il libro si conforma all’Impero. Il libro deve avere mille facce, non deve avere confini, non deve procedere per gradi: “Come altri grossi libri anche questo può essere letto in molti modi diversi: dall’inizio alla fine e viceversa, per singole parti, soltanto qua e là, o basandosi su corrispondenze” (p. 18). Il lettore si muove all’interno dell’opera come all’interno di uno spazio postmoderno. Impero è costruito come un edificio postmoderno, falsamente accogliente, labirintico, intricato. E’ un po’ come l’intricatissimo Bonaventure Hotel di Los Angeles, descritto da Fredric Jameson come esempio di architettura postmoderna, che “è riuscita infine a trascendere le capacità di orientarsi del corpo umano individuale”7 [1].

Questa disorganicità formale sembra essere in contraddizione con una delle aspirazioni del libro: infatti, secondo gli autori, Impero dovrebbe possedere le caratteristiche di un manifesto politico. Negri e Hardt, a questo proposito, citano il Principe di Machiavelli e il Manifesto del partito comunista, due opere abbastanza brevi ed estremamente organiche (si veda il paragrafo intitolato Manifesto politico che chiude il capitolo III della I parte). Per citare ancora Turchetto, “i manifesti – politici, artistici, filosofici che siano – sono eminentemente sintetici, originali, radicali”8 [1]. Perché allora realizzare un manifesto come un'”opera mondo”? Perché decostruire il ‘genere-manifesto’, sintetico, diretto, essenziale, per creare al suo posto un libro decentrato e prolisso, intertestuale, senza inizio, centro e fine? Forse, Impero è l’unico manifesto possibile nell’era della postmodernità, nell’era telematica della velocizzazione e dell’accumulo iperveloce di shock, un’era fatta per essere consumata in fretta, sotto ogni punto di vista, dagli abitanti dell’Impero, i quali assomigliano sempre di più ai ‘replicanti’ del film Blade Runner (1982) di Ridley Scott. E’ un po’ triste pensare ad Impero come a una sorta di Manifesto del partito comunista postmoderno, come vorrebbero i nostri autori. Un Manifesto filtrato da Machiavelli e Spinoza i quali dovrebbero essere riattualizzati e mescidati nel calderone di un vero e proprio pastiche. Comunque, di pastiches il libro di Negri-Hardt ne realizza diversi, e su diversi piani: abbiamo visto l’importanza della presenza del pensiero di Foucault, di Deleuze, di Guattari; la sottile presenza infrastrutturale dei postcolonial studies; inoltre dobbiamo ricordare anche la mescolanza di pensieri e culture che i due autori operano nelle pagine della loro opera: strizzate d’occhio alla letteratura e alla cultura cyberpunk (p. 206), ai “gruppi americani che fanno musica rap” (p. 377), al mondo cattolico, tramite la figura di San Francesco (pp. 381-82; un San Francesco comunista e postmoderno). E il pastiche sembra essere un fenomeno tipico della cultura della postmodernità, svuotato di senso rispetto al suo equivalente moderno, la parodia; così Jameson: “Il pastiche è dunque una parodia bianca, una statua con le orbite vuote”9 [1]. Il riuso di tutti questi autori antichi e moderni, citati in epigrafe e analizzati nel loro pensiero, li fa appunto sembrare tante “statue con le orbite vuote”.

Il polimorfismo di Impero è ravvisabile, a livello esteriore, anche nell’utilizzo di diversi caratteri di stampa. Come si è già accennato, quasi ogni capitolo reca in chiusura un paragrafo scritto nel corsivo delle citazioni, come se fosse un esplicito segnale per il lettore. E’ proprio in questi capitoli che si concentra la maggiore “interdisciplinarietà” dell’opera. Il segnale rivolto al lettore è pressoché questo: “attento, lettore, perché in questi paragrafetti conclusivi si parla d’altro, o meglio, utilizziamo una diversa forma stilistica, che esula per pochi attimi dal nostro linguaggio così tecnico, inserendo rimandi a fenomeni culturali, alla letteratura, al cinema”. Mi viene in mente un romanzo, scritto parallelamente al film omonimo: Teorema (1968) di Pier Paolo Pasolini, in cui vi sono diverse poesie scritte in corsivo, inserite all’interno della narrazione in prosa. In questo caso, il passaggio al corsivo, utilizzato per alcune delle poesie, vuole indicare che a pronunciarle sono dei personaggi, e non più la voce narrante.

Naturalmente la funzione del carattere corsivo in Impero è molto diversa; analizziamone i singoli paragrafi: il primo che incontriamo è quello già citato, intitolato Manifesto politico, alla fine del capitolo II della prima parte; il secondo lo troviamo alla fine del capitolo I della parte II, intitolato L’umanesimo dopo la morte dell’uomo, un altro riallacciamento al pensiero foucaultiano, peraltro notevolmente banalizzato; il terzo è Contagio (alla fine del capitolo III della parte seconda), dedicato al Viaggio al termine della notte di Céline, per dimostrare che “l’età della globalizzazione è l’età del contagio universale” (p. 135); il quarto è Il povero, (alla fine del capitolo IV della parte II) dedicato alla figura del “Vogelfrei”, l'”uccel di bosco” (il proletariato) di Marx: si conclude che “la scoperta della postmodernità consiste nella riproposizione dei poveri al centro del sociale e del politico” (p. 154), dopo un excursus alquanto patetico da Miracolo a Milano fino a Charlie Chaplin10 [1]. Il successivo è Rifiuto (fine capitolo VI, parte II), forse il più interessante, dedicato al rifiuto – “preferirei di no” – opposto dal personaggio Bartleby scrivano dell’omonimo romanzo di Melville, e al “rifiuto totale” opposto dal personaggio Michael K del romanzo di Coetzee, La vita e il tempo di Michael K: si intravede la possibilità del rifiuto come rivoluzionaria ‘scelta sociale’; incontriamo poi Cicli (fine capitolo I, parte III), dedicato alle teorie cicliche; poi Accumulazioni originarie (fine capitolo II, parte III), dedicato all’accumulazione originaria nel passaggio dalla modernità alla postmodernità; poi Comunanza (fine capitolo IV, parte III), in cui si afferma che “la comunanza è l’incarnazione, la produzione e la liberazione della moltitudine” (p. 284); poi Il big government è finito! (fine capitolo VI, parte III), il cui senso si può intravedere in questa dichiarazione, alquanto confusa: “No, non siamo anarchici, siamo comunisti che hanno visto in quale misura la repressione e la distruzione dell’umanità siano state portate avanti dai big government socialisti e liberali” (p. 325); infine, a chiudere il libro, abbiamo Il militante, ritratto del militante postmoderno, intravisto, come già osservato, in un novello San Francesco che ammansisce il capitalismo come un lupo cattivo: “si tratta di una rivoluzione che sfugge al controllo, poiché il biopotere e il comunismo, la cooperazione e la rivoluzione restano insieme semplicemente nell’amore, e con innocenza. Queste sono la chiarezza e la gioia incontenibile di essere comunisti” (p. 382). Così finisce Impero, con questa strana e incongrua mescolanza tra Foucault, San Francesco, cristianesimo primitivo e accessi di amore universale da figli dei fiori. Per un libro definito come “la Bibbia del nuovo movimento”, per un libro che aspira ad essere un altro Manifesto del partito comunista sinceramente sembra un po’ poco.

Ma non c’è di che stupirsi: anche la fine dell’opera è in linea col suo carattere sfuggente, intricato, labirintico. Impero è la realizzazione del grosso saggio critico postmoderno, entro il quale è quasi impossibile, come lettori, tenere una rotta precisa. E dentro il quale il lettore si sente continuamente bombardato da nuovi shock, derivati dall’eccessiva accumulazione di autori, di concetti, di culture. E’ un saggio che, come l’Impero, sembra abolire ogni tipo di frontiera, anche quelle più ‘naturali’, realizzando un calderone dove tutto ribolle insieme a tutto. Non stupiamoci, perciò, se un libro così tecnico, scientifico, senza dubbio interessante, in alcuni punti eccessivamente complicato, finisce in modo un po’ banale e semplicistico: la tecnica del pastiche, della mescolanza postmoderna è sempre in funzione. Fino alla fine: quel San Francesco rievocato assomiglia troppo ad un vuoto simulacro, ad un simbolo risibile per ogni comunista; assomiglia troppo, per usare ancora l’efficace espressione di Jameson, ad “una statua con le orbite vuote”.


1 [1] G. Genette, Fiction et diction, Paris, 1991, p. 11; si veda anche A. Compagnon, Il demone della teoria, (letteratura e senso comune), trad. it. Torino, 2000 (Le démon de la theorie. Littérature et sens commun, Paris, 1998). 2 [1] M. Turchetto, Il sacro Impero (per una critica della “Bibbia” di Negri e Hardt), in “Guerre&Pace” n. 87. 3 [1] Cfr. G. Genette, Soglie, trad. it. Torino, 1989 (Seuils, Paris, 1987). 4 [1] Cfr. anche M. Turchetto, art. cit. 5 [1] Basti ricordare l’analisi della Bibbia come forma enciclopedica svolta dal critico letterario canadese Northrop Frye in Anatomia della critica, trad. it., Torino, 1969, pp. 425-40 (Anathomy of criticism, 1957, Princeton University Press). 6 [1] F. Moretti, Opere mondo, Torino, 1994, p. 47. 7 [1] F. Jameson, Il postmoderno, o la logica culturale del tardo capitalismo, Milano, 1989, p. 82 (Postmodernism, or The Cultural Logic of Late Capitalism, New Left Review, 1984). 8 [1] M. Turchetto, art. cit. 9 [1] F. Jameson, Il Postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, cit., p. 37. 10 [1] Come suona patetica questa frase: “Ciò che era veramente profetico era il povero, il riso dell’uccel di bosco di Charlie Chaplin quando, libero da qualsiasi illusione utopica e, soprattutto, da qualsiasi disciplina della liberazione, interpretava i “tempi moderni” della povertà, ma, nello stesso tempo, legava il nome del povero a quello della vita, una vita e una produttività liberate” (p. 154). Di contro, si può ricordare come Chaplin, giunto a Parigi nel 1952, venne apostrofato in un volantino distribuito da alcuni appartenenti all’Internationale Lettriste (dalle cui ceneri nacque poi l’Internationale Situationniste): “imbroglione dei sentimenti, maestro-cantore della sofferenza… dietro il vostro bastoncino di giunco alcuni sentono già il manganello del poliziotto. Voi siete ‘colui-che-tende-l’altra-guancia-e-l’altra-chiappa’, ma noi che siamo giovani e belli rispondiamo Rivoluzione allor quando ci dite sofferenza… Siete una puttana, morite in fretta, noi vi organizzeremo un funerale di prima classe. Che il vostro ultimo film sia veramente l’ultimo.” Il testo è citato in G. Marelli, L’amara vittoria del situazionismo, Pisa, 1996, p. 20.


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