31.12.2000 

Fughe in avanti

Crisi e sviluppo del capitale

da Ernst Lohoff

“La produzione capitalista tende continuamente a superare questi limiti immanenti, ma riesce a superarli unicamente con dei mezzi che la pongono di fronte agli stessi limiti su scala nuova e piu` alta. Il vero limite della produzione capitalista e` il capitale stesso” — Marx, Il Capitale, vol. III ed. Riuniti, Roma 1980, p. 302

Il processo delle crisi e gli eventi delle crisi

E’ evidente: la barca fa acqua da tutte le parti. Il mondo incantato della globalizzazione e del boom del capitalismo da casinò è vittima di crisi di portata più o meno ampia a intervalli di tempo sempre più brevi, soprattutto alla sua periferia. Nel 1995 la crisi messicana, e la debolezza del dollaro che ne fu la conseguenza, fecero trattenere il respiro ai mercati finanziari, nel 1997 le “tigri” asiatiche dell’Estremo oriente e l’America latina vissero un improvviso crollo economico. E’ noto che la Russia è un caso senza speranza. La stessa economia del Giappone, un Paese che a lungo era stato presentato come una Success-story per eccellenza, è sprofondata in una palude fatta di recessione, debito pubblico alle stelle e settore bancario irrimediabilmente indebitato oltre ogni limite. Le notizie positive che giungono dall’economia americana sono di tenore diverso soltanto in apparenza. Tali successi si basano infatti esclusivamente su una sempre più folle economia fondata sul deficit, ovvero sul più grande castello di carte della storia. “Nel 1998 il passivo delle partite correnti ha superato il limite dei 200 miliardi di dollari, nel 1999 è andato oltre 300 miliardi, nel 2000 raggiungerà i 400 miliardi. Con lo stesso ritmo frenetico ha raggiunto livelli stratosferici l’indebitamento netto con l’estero: oltre 2 bilioni di dollari nel 2000, oltre 3 bilioni di dollari due anni più tardi” (“Die Zeit”, 5-1-2000).

In Occidente comunque non ci si lascia rovinare così facilmente la voglia di festeggiare. Si preferisce fare gli scongiuri e pregare che tutto vada per il meglio. Anche i segni premonitori negativi per il futuro non riescono a cambiare questo stato d’animo. Al contrario. Finchè si riuscirà a circoscrivere gli attuali focolai di crisi e a bilanciare i parziali processi di svalorizzazione alla periferia del mercato mondiale, grazie a una accelerata creazione di valore fittizio nei centri capitalistici, gli attacchi di panico di ieri legittimeranno ancora l’atmosfera spensierata di oggi. Il fatto che nessuna delle perturbazioni che si sono succedute fino ad oggi abbia fatto crollare l’Europa o gli Stati Uniti viene considerato come la prova che questo boom alimentato speculativamente sia a prova di bomba. Poiché il paese della cuccagna del capitalismo da casinò va avanti da vent’anni, si è convinti che questa situazione continuerà per sempre. Mentre la contraddizione economica, che da un momento all’altro potrebbe scoppiare fragorosamente, accumula di mese in mese il suo vertiginoso potenziale di rischio, la coscienza dominante nega il generale processo di crisi, diluendolo in una serie di molteplici eventi di crisi senza metterli in rapporto e quindi privandoli di significato.

La rimozione della teoria marxiana delle crisi e del crollo

Stranamente, anche i resti dell’opposizione marxista si danno da fare, secondo le loro possibilità, in questo grande processo di rimozione. Naturalmente la sinistra sottolinea le zone d’ombra del dominio capitalista nel ventunesimo secolo. Eppure è convinta, almeno tanto quanto il neoliberismo, che l’orizzonte dello sviluppo capitalista non conosca confini, nonostante le differenze esistenti nella valutazione. Tutti ripetono: “Ma che cos’è questa crisi?”.

Il contrasto con la posizione di Marx non potrebbe essere più evidente e drastico. Per il padre fondatore della critica dell’economia politica la crisi ha avuto sempre un significato analitico centrale. I suoi scritti di critica dell’economia sono continuamente orientati verso una teorizzazione della crisi. A questo proposito occorre mettere in evidenza e registrare due dati fondamentali. : 1. In Marx le crisi economiche non rappresentano mai un tema aggiuntivo. L’intero studio della genesi logica e della riproduzione del capitale è fin dal principio anche un’analisi delle crisi. Fin dal primo capitolo del “Capitale” la possibilità della crisi è introdotta con la riduzione dei beni di consumo alla rappresentazione di lavoro astratto, e con la separazione di acquisto e vendita tramite l’utilizzo del denaro. La concrezione della rappresentazione del capitale significa contemporaneamente una graduale concrezione del potenziale di crisi inerente collegato a questo rapporto sociale.

2. Lo studio delle crisi cicliche rimanda all’ipotesi di un limite assoluto. Le crisi cicliche hanno sempre un doppio significato. Da una parte esse sono, proprio perché spezzano il normale processo riproduttivo, un momento irrinunciabile del rinnovamento del rapporto di capitale. Soltanto le crisi permettono di risolvere temporaneamente il potenziale di contraddizione continuamente rinnovato, e quindi di riaprire uno spazio per lo sviluppo. Ma nello stesso tempo le crisi segnano delle tappe nel processo di avvicinamento verso l’ineludibile limite storico del modo di produzione mediato dal valore. La società capitalista supera le crisi sempre e soltanto “mediante la preparazione di crisi più generali e più violente, e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse” (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Laterza, Roma-Bari, 1983, p.65), come si afferma programmaticamente gia` nel Manifesto comunista.

Al giorno d’oggi il discorso marxista non vuol sapere nulla di tutto ciò. Perfino quando ammette la possibilità di crisi, gli interessa soltanto passare sotto silenzio come un vero e proprio tabù l’essenziale, ovvero l’idea che il capitale possa avere un limite intrinseco. La tensione intrinseca all’analisi delle crisi in Marx viene coerentemente trascurata per la fede nell’eterna rinascita del capitale. Il fatto che lo sviluppo capitalista sia sempre stato contrassegnato da frequenti crisi non rimanda più al carattere limitato del modo di produzione borghese, piuttosto “dimostra” quanto poco le crisi possano influenzarlo. Le esternazioni di Michael Heinrich a proposito della rovina delle “tigri asiatiche”, sono tipiche del concetto di crisi, dal sapore quasi buddista, che domina oggi: “La crisi asiatica è stata quello che le crisi sono sempre state nel capitalismo: una soluzione violenta a problemi che si erano accumulati nel tempo (…) Su una base ridotta è poi possibile una nuova epoca di prosperita` – finchè non si saranno nuovamente accumulati così tanti problemi e errori, che ci sarà nuovamente bisogno di una crisi per risolverli” (“Jungle World”, 2/99). Questa frase sembra richiamare Marx, e in effetti comincia con una parafrasi di un passo del terzo volume del “Capitale”. Ma in Marx il tenore era un po` diverso: “(…) crisi, le quali sono sempre solo delle temporanee e violente soluzioni delle contraddizioni esistenti, violente eruzioni che ristabiliscono momentaneamente l’equilibrio turbato”, così si legge nell’originale (Il Capitale, cit., pag.302). Quale effetto può avere la cancellazione di parolette inoffensive come “temporanee” e “momentaneamente”!

La teoria delle crisi in Marx e l’antico movimento operaio

Se gli ultimi marxisti spariscono nel nirvana per quanto riguarda le teorie della crisi, cio` non è da attribuire soltanto alla pressione esercitata su di loro perché si adattino allo spirito del tempo. Nel contempo siamo anche di fronte al punto finale di una lunga tradizione. Heinrich e compagnia non sono stati i primi a mettere da parte la teoria del crollo economico in Marx, gia` i teorici della seconda internazionale e i loro epigoni non sono stati in grado di comprenderla. La ragione per cui la teoria del crollo economico è sempre rimasta un corpo estraneo nel pensiero del movimento operaio, una corrente che considerava il primato della classe sociale e della lotta di classe l`elemento costitutivo della propria coscienza, è in effetti evidente. Se la lotta di classe rappresenta l’essenza della storia, e il proletariato ha il compito storico di farla finita con il capitale, come può allora il capitale autodistruggersi? Il suo vero limite può e deve invece trovarsi soltanto nella volontà e nel potere della classe operaia.

Naturalmente si è fatto in modo di conciliare formalmente l’inconciliabile. Il discorso di Marx, all’apparenza oscuro, “sul capitale come proprio limite intrinseco” fu tradotto in una tendenza immanente al capitale a generare un proletariato dal numero sempre crescente e sempre più consapevole della situazione (1).

Anche le crisi cicliche furono fatte entrare a forza dal pensiero del movimento operaio in questo sistema di riferimento. In sostanza, il loro significato si limitava a facilitare la presa di coscienza, da parte del proletariato, che il sistema capitalista lo danneggia. Le crisi sarebbero dunque dovute servire da mezzo educativo. Tali interpretazioni offrivano la possibilità di rendere l`omaggio dovuto alle affermazioni del maestro e nello stesso tempo di dare loro un significato opposto a quello originale, specialmente per quanto riguarda la teoria del crollo economico. (2).

Non soltanto la fissazione teoretica sulla lotta di classe ha impedito di vedere la particolare dialettica di rinnovamento originato dalle crisi e dall`autodistruzione finale. Quest’ultima soprattutto rimase al di là del campo d’osservazione, perché era di rilevanza molto limitata rispetto all’insieme delle circostanze, alle quali storicamente poteva fare riferimento il movimento operaio. La teoria marxiana del crollo anticipa e presuppone un rapporto di capitale, che si muove secondo i propri principi, e ha già fatto svanire qualsiasi forma di riproduzione premoderna. Il capitalismo empirico, con il quale Marx dovette confrontarsi ai suoi tempi, era però ancora ben lontano da un simile stadio di sviluppo, e quindi anche dall’orizzonte possibile delle crisi, così come viene delineato concettualmente nel “Capitale” e nei “Grundrisse”. Mentre Marx voleva vedere direttamente già nel crack del 1857, la prima crisi economica che cominciava a staccarsi dal paradigma delle crisi agrarie premoderne, il primo passo verso la crisi finale del capitalismo, in realtà ci sarebbero volute ancora diverse generazioni, prima che il sistema produttivo di merci si avvicinasse, anche nella pratica, a problemi di portata pari a quella che Marx aveva anticipato logicamente.

Si racconta che Rosa Luxemburg, l’unica che, insieme con Henryk Grossmann, abbia portato avanti nelle fila dell’antico movimento operaio la linea legata alla teoria delle crisi nel pensiero di Marx invece di castrarla, una volta abbia detto che, per arrivare all’esaurimento della logica capitalista ci vorrà almeno tanto tempo quanto ne sarà necessario per lo “spegnimento del sole”. Come esagerazione polemica questa battuta aveva la sua giustificazione. All’interno dei conflitti sociali della fase di imposizione del sistema capitalistico, fase alla quale appartiene ancora la prima metà del ventesimo secolo, le implicazioni, in termini di teoria delle crisi, della critica dell’economia politica, non potevano offrire quasi alcun orientamento pratico, né tanto meno si potevano da esse dedurre delle direttive per l’azione.

Ma novant’anni dopo la situazione è totalmente diversa. Proprio perché in nessun altro settore Marx ha precorso i tempi con tanto anticipo, la teoria del crollo economico e delle crisi può oggi essere considerata come l’aspetto piu` esplosivo della teoria marxiana. Perciò c’è qualcosa di tragicomico nella pretesa degli amministratori dell’eredità marxiana oggi più influenti, all’interno dei gruppi che a Marx ancora si rifanno, di dichiararla anacronistica e di dare proprio a questa teoria della crisi il benservito, storcendo il naso ogniqualvolta vi si fa riferimento. Le teoria di Marx rifiorirà nel ventunesimo secolo soltanto se si riuscirà a riportare alla luce proprio questa impostazione teoretica nascosta e a renderla fruttuosa.

Eliminazione relativa e assoluta di lavoro vivo

Per quanto sia irrinunciabile, la ricostruzione della critica dell’economia politica di Marx, e delle sue implicazioni in rapporto alla teoria delle crisi, da sola non è sufficiente. Centotrenta anni dopo che Marx ha delineato per primo, in maniera generale e logica. il limite intrinseco del movimento del capitale, non solo si puo` descrivere questo movimento piu` concretamente che nell`800. Il meccanismo di riproduzione e di crisi del capitale si è differenziato e così facendo ha aperto la strada a nuovi livelli di contraddizione, ai quali Marx, nella sua analisi, potè soltanto accennare o che si sottraevano completamente al suo orizzonte conoscitivo. L’attualizzazione della teoria delle crisi deve dunque mirare a una nuova formulazione. Ma per questa nuova formulazione l’impostazione di Marx, specialmente dal punto di vista del metodo, rimane ineludibile.

La discussione tra marxisti sulle crisi si è imperniata a lungo sulla “legge della caduta tendenziale del saggio di profitto”. Il cambiamento della composizione organica del capitale, e l’estensione del capitale costante rispetto a quello variabile, fu considerato come l’alfa e l’omega dell’analisi delle crisi in Marx. Ma così facendo è sempre rimasto in secondo piano un elemento essenziale. Con la legge della “caduta tendenziale”, Marx non ha affatto definito il limite assoluto del capitale. Egli spiega piuttosto a grandi linee come il capitale superi provvisoriamente le sue difficoltà strutturali e le incanali in una forma di sviluppo storica. La vera autocontraddizione del processo di socializzazione capitalista non consiste nel fatto che il lavoro vivo che produce (plus)valore si riduce relativamente, cioe` misurato sul capitale costante, sempre di più. Il capitale diventa il suo stesso limite perché tramite la concorrenza tende assolutamente a ridurre al minimo il lavoro vivo utilizzato, mentre nello stesso tempo il lavoro rimane l’unica fonte di produzione di valore. O, per dirla con Marx, “il capitale è di per sé stesso una contraddizione in divenire, perché (cerca) di ridurre il più possibile la durata del lavoro, mentre d’altra parte pone la durata del lavoro come unica misura e fonte della ricchezza” (3).

A questo dilemma di base il capitale può sfuggire soltanto se – e proprio questo processo descrive la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto – l’intero stock sociale di capitale cresce così rapidamente da compensare la continua eliminazione di forza lavoro riferita a uno stock di capitale dato, facendo cosi`aumentare in maniera assoluta la massa di lavoro vivo che entra nel processo di valorizzazione del valore. Marx non intendeva dunque determinare un qualsivoglia saggio del profitto, in modo tale che, se esso fosse sceso sotto questo minimo, la macchina capitalista si sarebbe arrestata. La caduta del saggio di profitto, insieme con le sue “cause antagonistiche” (Marx), va considerato come prezzo e conseguenza secondaria di quel movimento storico di espansione senza il quale il rapporto capitalista non puo` sopravvivere. Infine, le crisi cicliche vanno intese come interruzione di tale processo estensivo, e il capitale raggiunge il suo limite assoluto nel momento in cui questo meccanismo di compensazione si autodistrugge.

In ultima istanza, il destino del capitale dipende da quanto lavoro vivo riesca a immettere nel processo di utilizzazione, al livello di produttività dato. Il metodo più semplice che permette in linea di principio una compensazione rispetto all’utilizzo ridotto di lavoro per unità di prodotto è evidente. Se oggi cinque lavoratori producono tante automobili, pantaloni o pomodori quanti prima ne producevano dieci, allora occorre raddoppiare la quantità di automobili, pantaloni o pomodori prodotti per mantenere costante la massa di lavoro utilizzata, e triplicarla, se la si vuole aumentare del cinquanta per cento.

Ma esistono dei limiti ad una simile espansione puramente quantitativa. Poiché, com’è noto, il capitale non si mette in moto semplicemente per generare quanti più valori d’uso possibile, ma, dal punto di vista capitalista, le cose utili hanno il diritto di esistere esclusivamente come rappresentazione del valore di scambio, si pone inevitabilmente la questione della realizzazione di questi valori. Il consumo della classe operaia resta sempre, se commisurato con la massa di merci prodotte, un sottoconsumo. Si può dire che questa è in effetti la condizione di esistenza del plusvalore e del profitto. Quanto più aumenta il saggio del plusvalore, e si riduce corrispondentemente la quota di capitale variabile nel valore di ogni singolo prodotto, tanto più chiaramente viene alla luce questa sproporzione. Da questa difficoltà` nella realizzazione il capitale, come processo sociale complessivo, non riesce a liberarsi soltanto estendendosi quantitativamente nei settori esistenti. Una via d’uscita (temporanea) si apre soltanto se il capitale rivoluziona la sua base tecnologica, e si apre nuovi settori di produzione (compresa la produzione di mezzi di produzione), i quali assorbono lavoro vivo supplementare.

Innovazione nei processi e nei prodotti

Marx ha stabilito una stretta relazione fra i cicli congiunturali e i cicli di rotazione del capitale fisso. Se si tiene conto anche dei salti qualitativi nello sviluppo delle forze produttive, questo rapporto si può capire meglio. Fin quando lo sviluppo delle forze produttive trova la sua applicazione principalmente nella razionalizzazione di settori produttivi già esistenti, il capitale deve entrare in una fase di stagnazione e di crisi. Se invece lo sviluppo apre in primo luogo nuovi settori di massiccia utilizzazione di lavoro vivo, il capitale può entrare in una fase di crescita e di accumulazione accelerata. La ferrovia, e il forte sviluppo, ad essa collegato, delle industrie dell’acciaio e del carbone, ha messo fine alle crisi degli anni ’30 e ’40 dell`800. L’espansione dell’industria chimica e l’elettrificazione hanno reso possibile il superamento della “grande depressione” nella quale il capitale era precipitato per più di vent’anni dopo il boom dei capitani d’industria. Infine la vittoria del fordismo, con la produzione automobilistica come industria di punta, ha spianato la strada dalla crisi economica mondiale al “miracolo economico”. La marcia vittoriosa della società della merce si può descrivere come una continua fuga in avanti, interrotta da crisi e da crisi di nuovo rilanciata, sulla quale hanno avuto un impatto decisivo le spinte provocate dall’innovazione tecnologica. Ma questo processo non dovrebbe far commettere l’errore di considerare eterno questo modello, e di presupporre una semplice equazione del tipo Innovazione = Boom, come si ha l’abitudine di fare, in particolar modo nella discussione sulle cosiddette “onde lunghe”. Se le rivoluzioni tecnologiche del passato sono state in grado di rifondare il sistema capitalista di utilizzazione del lavoro non dipende dal fatto che hanno rivoluzionato le condizioni di produzione, ma che lo hanno fatto in maniera molto specifica. Le scoperte dei grandi artigiani-inventori industriali dell`800, (da Siemens a Bell fino a Edison), e la congiuntura favorevole innestata dalle ferrovie sono state in grado di aprire nuovi settori di investimento, perchè hanno avuto principalmente un effetto innovativo sulla produzione, creando quindi mercati per merci che prima non esistevano. Il passaggio al fordismo ha significato certo in primo luogo un cambiamento dei processi produttivi (introduzione della catena di montaggio, divisione tayloristica dei compiti lavorativi), ma questa innovazione nei processi ha reso anche possibile allargare la fabbricazione di automobili, apparecchi elettronici, ecc. oltre la nicchia di una produzione artigianale di lusso, e di inserirla nel ciclo di utilizzazione capitalista. L’effetto delle innovazioni di base legate alla terza rivoluzione industriale è invece completamente diverso. In quanto conseguenza diretta dell’applicazione della scienza come forza produttiva, l’effetto principale della microelettronica non consiste tanto nel creare nuove opportunità di investimento. In primo luogo la microelettronica agisce – trasversalmente in tutti i settori industriali esistenti – come la tecnologia di razionalizzazione per eccellenza. Ciò che risulta come ulteriore utilizzazione di lavoro nella produzione di computer, chips, cavi in fibra di vetro, ecc., non si trova in alcun rapporto con la massa di forza lavoro liberata dall’utilizzo su larga scala della microelettronica. Diversamente dai suoi predecessori, la terza rivoluzione industriale non può per questa ragione far mettere in azione una nuova spinta all’accumulazione che si regga da sola, ma moltiplica il potenziale di crisi scatenato dall’esaurirsi del boom fordistico. In questo contesto, anche la continua diminuzione dei costi delle tecnologie di punta non agisce in modo tale da rallentare la crisi, diminuendo il valore degli elementi del capitale costante, ma piuttosto la acuisce, perché favorisce la loro onnipotenza.

Di fronte a questo sviluppo, la teoria di Marx, secondo la quale l’utilizzo delle conoscenze scientifiche nella produzione comportera` la distruzione della società della merce, acquista un substrato empirico. Le famose affermazioni di Marx nei “Grundrisse” a questo proposito tornano all’ordine del giorno della storia: “Il furto del tempo di lavoro esterno, su cui si basa l’attuale ricchezza, appare come una base minima rispetto a questa nuova che si è sviluppata. (…) Non appena il lavoro nella sua forma diretta ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, la durata del lavoro cessa, e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. (…) Così si autodistrugge anche la produzione che si basa sul valore di scambio” (4).

Debito statale, inflazione e accumulazione

In ultima istanza, la capacità di sopravvivenza della produzione capitalista dipende dalla riuscita del tentativo di integrare a sufficienza lavoro vivo nel ciclo di utilizzo per la produzione di valore. Già in occasione della crisi economica mondiale degli anni ’20 e ’30 questa dipendenza diventò un evidente problema strutturale per un periodo di tempo che fino ad allora non era mai stato così lungo. La rottura con il passato fu così profonda che da sola la valorizzazione dei capitali esistenti, anche collegata con le corrispondenti spinte innovative, non era più sufficiente a originare un nuovo slancio economico autosufficiente. Soltanto l`improvvisa estensione dell’attività dello stato, che si realizzò in primo luogo nel segno del riarmo e della guerra mondiale, potè mettere fine a quello stato di paralisi e dare una spinta che riportò nuovamente l’economia capitalista sulla strada della crescita. Il conseguente addio allo Stato concepito come passivo tutore dell`ordine pubblico, fu dunque inevitabile par innestare il boom fordistico, perché l’estensione delle nuove industrie di punta rendeva necessaria un’infrastruttura sociale complessiva di ampio respiro, che non può, o può solo in misura molto limitata, prendere la forma di merci in grado di generare profitto. Come si sarebbe potuta sviluppare una fiorente industria automobilistica, se lo Stato non avesse investito fondi immensi nella costruzione di strade? Come si sarebbero potuti imporre vittoriosamente gli apparecchi elettrici per la casa e i mezzi di intrattenimento elettronici senza enormi investimenti per una fornitura d’energia su larga scala, investimenti che di per sè non avrebbero generato profitto, e che quindi furono affidati allo Stato? In questo contesto va inserita anche la costruzione dello Stato sociale con le sue garanzie, e con le necessarie prestazioni statali, a monte o parallele.

Lo Stato fu chiamato ad assolvere a doveri economici in una misura fino a quel momento impensabile, non soltanto perchè, di fronte al crescente effetto socializzante dello sviluppo delle forze produttive, doveva prendere sulle sue spalle una nuova responsabilità in termini di messa a disposizione delle condizioni-quadro della produzione di merci. Lo Stato era sollecitato almeno nella stessa misura anche dallo sviluppo dalla parte del valore. Già a livello d’impresa, alle soglie dell’età fordista i costi preventivi dell’utilizzazione del lavoro erano troppo alti per poter essere coperti soltanto dalle entrate regolari della valorizzazione del capitale. Già allora si rendeva necessario fare ricorso alla domanda aggiuntiva dello Stato, andando oltre le abituali entrate fiscali, e all’allargamento in generale dello spazio d’azione creditizia. Ma ambedue questi obiettivi erano realizzabili soltanto grazie a una radicale ristrutturazione del sistema monetario, e in generale della politica finanziaria statale.

Il processo di riproduzione del capitale comprende necessariamente la metamorfosi delle numerose merci particolari nella merce generale, il denaro. Finchè, per quanto riguarda il denaro, si trattò di una merce monetaria reale (metallo prezioso), o dei suoi rappresentanti diretti (copertura aurea), e la realizzazione del valore rimase strettamente legata a un’utilizzazione produttiva di lavoro già portata a termine in altro luogo, fu inevitabile che ogni volta questa realizzazione si rivelasse come una cruna dell’ago. Le crisi – come face già notare a suo tempo Marx – presero allora sempre anche la forma di un’acuta, o, nel caso della crisi economica mondiale, cronica penuria di mezzi di pagamento, il cui punto di partenza era lo spezzarsi di catene creditizie nell’ambito dell’economia privata. Era possibile allora descrivere il decorso della crisi come una spirale deflazionistica. L’addio al “metallo barbarico” (Keynes), il passaggio a una moneta regolata politicamente, che non rappresentava alcuna ricchezza realmente disponibile, e faticosamente accumulata, ma era coperta in fin dei conti soltanto dalla prospettiva di una futura creazione di valore, offrì la possibilità di sfuggire alla strettoia con il “deficit spending” e di superare la stasi. L’accesso anticipato, mediato dallo Stato, e il denaro creato da quest’ultimo, mise i diversi capitali in condizione di trasformarsi in un equivalente generale su scala più ampia, e quindi di far partire un nuovo ciclo di produzione e valorizzazione. Ciò rese possibile il superamento della depressione. Ma ogni nuovo meccanismo di superamento delle crisi genera nuovi potenziali di crisi. Proprio in questo caso un tale meccanismo è evidente. L’anticipazione monetaria di utilizzazione di lavoro tale da produrre valore può essere confermata a posteriori, ma non è detto che ciò accada necessariamente. Laddove la cambiale sul futuro, mediata dalla creazione statale di denaro, si riveli poi non realmente coperta, in tutto o in parte, vengono alla luce due fenomeni che erano completamente sconosciuti nello stadio di sviluppo capitalista dell`800. Da una parte, questo continuo accesso anticipato a una ricchezza che deve ancora essere creata, ha come rovescio della medaglia il crescente indebitamento statale. Ma il processo di indebitamento non può essere portato avanti all`infinito senza che il processo di valorizzazione capitalista alla fine sia schiacciato da questo peso regresso (5). Del resto, questo processo è difficilmente arrestabile, poiché si pagherebbe con il passaggio immediato dalla cronica debolezza della crescita a una depressione acuta, e con il ritorno dei vecchi meccanismi deflazionistici, ma in forma accentuata (6). Dall’altra, la crisi provoca, oltre alla svalorizzazione del capitale reale e di quello monetario, anche la svalorizzazione del mezzo monetario stesso. Laddove l’utilizzazione anticipata di lavoro si realizzi soltanto in parte, il risultato è un’inflazione strisciante. Se il lavoro di un’intera economia nazionale viene dichiarato senza valore a posteriori dal mercato mondiale, questa economia nazionale può addirittura precipitare in un processo iperinflazionistico.

Negli anni ’50 e ’60, l’età d’oro del capitalismo con i suoi vertiginosi tassi di crescita, il sistema di copertura a posteriori ha essenzialmente funzionato: l’indebitamento statale, così come l’inflazione, rimasero perciò a un livello accettabile. Ma questa situazione era destinata a cambiare, nella misura in cui la fase di prosperita` fordista si esaurì nel corso degli anni ’70. Non soltanto il problema di base, cioe` la sempre minore capacità del capitale di assorbire nella misura necessaria lavoro che crei valore, cominciò a tornare in primo piano: in questa situazione anche la soluzione della crisi escogitata in passato diventò nello stesso tempo anche un problema in più, che minacciava di aggravare la crisi. La prospettiva poco incoraggiante che si presentava all’economia mondiale all’inizio degli anni ’80 può essere letta a partire da alcuni importanti indicatori statistici. Nonostante un ricorso accentuato al deficit spending, i dati di crescita medi negli Stati dell’Ocse erano scesi all’1,4% (fra il 1967 e il 1976 erano ancora all’altezza del 4,9%), il tasso di inflazione medio raggiunse il 12,6% (contro il 6,1% del periodo di confronto preso in esame). Sempre nuovi massimi storici dell’indebitamento statale (in media il 43,6% del prodotto interno lordo annuale per gli Stati dell’Ocse) erano ugualmente la prova che in generale la situazione stava diventando pericolosa.

La posposizione della crisi grazie all’economia da casinò

Già all’inizio degli anni ’80 erano riuniti importanti ingredienti per per un forte processo di valorizzazione e una nuova depressione. Eppure gli Stati capitalisti si tirarono fuori dalla “stagflazione”, ovvero la presenza simultanea di svalutazione monetaria e crescita debole, e anche l’indebitamento statale dei Paesi dell’Ocse, dopo essersi più che raddoppiato negli ultimi 20 anni, oggi non viene più considerato un problema così grave. Certo, le contraddizioni di base non hanno trovato un punto di equilibrio. Il passaggio al capitalismo globalizzato le ha “risolte” nella misura in cui le ha portate ancora una volta a una scala più ampia e del tutto nuova. Se l’accesso preventivo alla massa di valore futuro, accesso realizzato tramite una politica monetaria espansiva e programmi congiunturali di stampo keynesiano, aveva raggiunto i suoi limiti, questi furono superati dalla dinamica di creazione privata di capitale fittizio. In questo modo non viene soltanto consumato in anticipo l`intero futuro economico controllato dallo Stato, ma la speranza nei successi futuri dei numerosi capitali singoli viene valorizzata e diventa la materia prima della ricchezza attuale. La base dell’economia è diventata, a livello generalizzato, il profitto fittizio privato, e l’utilizzazione reale di lavoro sopravvive soltanto come appendice della valorizzazione fittizia di capitale. Tutto ciò non suona soltanto assurdo, è assurdo. Ma da circa 20 anni lo specchietto per le allodole capitalista si basa su questa assurdità! Il concetto di capitale fittizio è stato elaborato da Marx nel terzo volume del “Capitale” nel contesto dell’analisi del denaro creditizio, mettendo in rilievo la sua importanza per il ciclo delle crisi. Questa è la sintesi delle riflessioni di Marx: la relativa autonomizzazione dei circuiti del capitale monetario, e l’allungamento corrispondente delle catene creditizie e quindi l’accumularsi di crediti, sono il risultato di una crescente penuria di possibilità di investimento reali. L’espansione di questa sovrastruttura finanziaria dà al capitale in funzione, nella misura in cui questo immette nella sfera dell’accumulazione profitti che non sono stati ancora realizzati, la possibilità di poter accumulare ancora quando in realtà si è già arrivati a un livello di sovrapproduzione e la realizzazione del valore comincia a bloccarsi. Se questo processo va avanti, e crescono i dubbi sulla possibilità di recuperare davvero i flussi finanziari anticipati, allora prima o poi scatta la corsa al recupero del denaro e le catene creditizie si spezzano. Il panico coincide allora con un’improvvisa contrazione di tutte le attività economiche, tutti i crediti accumulati, ma anche il capitale reale, vengono svalutati. Dal momento che la penuria monetaria generale diventa il punto d’inizio di una dinamica di crisi acuta, questa crisi prende appunto la forma di una crisi finanziaria. Nell`800 esistevano pero` limiti ristretti all`autonomizzazione di una sovrastruttura finanziaria, che da una parte posticipa le crisi ma dall’altra le aggrava. Fino a quando il denaro valeva come equivalente dell`oro puro, l`elemento speculativo trovava il suo posto all’interno dei cicli congiunturali, e fondamentalmente segnava gia` il punto di passaggio verso la crisi. Questo modelo di base e` rimasto sostanzialmente invariato fino alla fine degli anni `70. Tra l’altro ciò si vedere dal fatto che l’accumulazione reale e il valore delle partecipazioni azionarie si sono sviluppati parallelamente nel lungo periodo. Ma con la Reaganomics il movimento speculativo si è staccato dal ciclo congiunturale, ed è così diventato il vero motore della crescita che va al di la` del ciclo congiunturale.

Lo sviluppo dell’indice Dow Jones documenta inequivocabilmente questa autonomizzazione. A partire dalla sua introduzione, nel 1897, l’indice è cresciuto sincronicamente con l’economia statunitense, a parte alcune oscillazioni passeggere. Perciò ci sono voluti 66 anni affinchè l’indice del mercato borsistico americano toccasse la soglia dei 1000 punti. Soltanto nel 1982 questa barriera fu stabilmente superata. Nei 13 anni successivi il valore determinato dall’indice si è quadruplicato. Nel 1996 si spinse addrittura a 6000 punti, e infine nel 1999 si attestò a 11000 punti. Di conseguenza, in meno di 20 anni l’indice ha segnato una crescita del 1100%, mentre nello stesso periodo di tempo la crescita del prodotto interno lordo americano non ha raggiunto il 50%!

L’automoltiplicazione speculativa del capitale monetario è diventata decisiva con la Reaganomics. Questa affermazione è totalmente giustificata non soltanto perché nei due ultimi decenni del ventesimo secolo la correzione dei valori, in ultima analisi inevitabile, è stata sempre di nuovo spostata in là nel tempo, ma anche perché il capitale fittizio ha ormai assunto per l’intero processo economico un`importanza del tutto incomparabile con alcune fase antecedente dello sviluppo capitalista.

Il capitalismo da casinò ha realizzato due exploit storici che sono strettamente collegati l’uno con l’altro. In primo luogo è responsabile dell’improvvisa scomparsa della svalorizzazione monetaria (l’inflazione sui mercati dei beni). Se la politica monetaria espansiva dello Stato, negli anni ’70, ebbe per conseguenza uno squilibrio tra offerta dell’economia reale e domanda monetaria, l`emergente boom economico da casinò ha vincolato questa eccedenza di mezzi di circolazione economica, trasformandola in grande stile in capitale monetario. Parti consistenti di potenziale domanda di consumo sono sostituite da diritti monetari in continuo aumento (possesso di azioni, obbligazioni), che momentaneamente permngono nella sovrastruttura finanziaria invece di essere scambiati con beni di consumo. Al posto di un rincaro generale, si è imposto ciò che in americano viene significativamente definito “asset-inflation”, cioè il particolare aumento dei valori azionari, ma anche degli immobili e di altri beni oggetto di speculazione. Le statistiche dell’Ocse da questo punto di vista parlano molto chiaramente e dimostrano cronologicamente questo rapporto logico. Nel 1980 il tasso di inflazione raggiunse un valore massimo negli Stati Uniti con il 13,5%. Tre anni dopo, nel Paese precursore del capitalismo speculativo l’inflazione era precipitata al 3,2%. Un tale effetto in Europa fu piu` lento nel tempo, ma non meno drammatico. Per esempio in Francia l’indice dell’aumento dei prezzi al consumo scese dal livello del 13,6% nel 1980, identico a quello degli Stati Uniti, a meno del 3% nel 1986.

Finchè il capitale di investimento reale riesce, emettendo azioni, ad appropriarsi di enormi quantità di capitale monetario, e nello stesso tempo il possesso di azioni diventa la base, su larga scala, per il credito ai consumatori, l’automoltiplicazione del capitale fittizio funziona sia dal lato dell’offerta che di quello della domanda come un colossale programma congiunturale. Fin quando le catene creditizie reggono e la sovrastruttura finanziaria si espande ulteriormente, si possono acquistare con i profitti ottenuti grazie alla speculazione prodotti di lusso e automobili come se ne potrebbero acquistare con i guadagni provenienti da una reale utilizzazione di lavoro. L’accesso anticipato a una futura creazione di valore, che trova il suo veicolo nei rapporti creditizi tra i soggetti capitalisti, ha assunto delle dimensioni che a posteriori fanno sembrare bazzecole l’accesso anticipato tramite la creazione di denaro da parte dello Stato nell’epoca keynesiana. Ma tanto piu` si sale in alto, tanto più si cade in basso. L`autonomizzazione del capitale fittizio dalla valorizzazione reale del valore rimane relativa, e non puo` diventare assoluta, anche laddove la sovrastruttura diventa assurdamente la base dell’economia reale. Prima o poi, l’impossibilità di mantenere la promessa della valorizzazione deve far crollare l’intero gigantesco edificio speculativo. Ma ciò non significa affatto il semplice ritorno allo status quo ante. Con la fine del boom del capitalismo da casinò il bisogno di valorizzazione accumulato da molti decenni deve diventare manifesto a tutti i livelli, e diventeranno all`improvviso percepibili i limiti strutturali trascurati dell’ulteriore valorizzazione. La politica non può arrestare la svalorizzazione imminente, ma tutt’al più posticiparla e influenzare la forma di sviluppo della svalorizzazione. Perciò può agire soprattutto sul rapporto fra processi inflazionistici e deflazionistici, e quindi sulla questione, se si distrugge in primo luogo capitale fittizio, oppure se tramite il tentativo di socializzare le perdite il mezzo monetario stesso viene piu` rapidamente svalorizzato.

Le ondate speculative che Marx ha descritto stanno al moderno capitalismo da casinò come la locomotiva a vapore alla navicella spaziale Challenger. Ma proprio per questo, in rapporto alla prospettiva descritta finora, i marxisti dovrebbero ricordarsi quel che lo stesso Marx mise per iscritto sul “New York Daily Tribune” in occasione della crisi commerciale del 1857: “Se la speculazione, verso la fine di un determinato periodo commerciale, entra in scena per precorrere il crollo (crash), non si dovrebbe dimenticare che la speculazione stessa è stata generata nelle fasi precedenti di quel periodo, e perciò ne è un risultato e un aspetto esteriore (accident), e non ne rappresenta la causa ultima e l’essenza (the final cause and the substance). Gli economisti politici, i quali affermano di poter spiegare le convulsioni regolari (spasms) dell’industria e del commercio con la speculazione, assomigliano a quella scuola, ora estinta, di filosofi della natura che consideravano la febbre come la vera causa di tutte le malattie” (7).

Ernst Lohoff è pubblicista e corresponsabile della pubblicazione della rivista “Krisis” a Norimberga.


Note

1) Karl Kautsky, il custode del sacro Graal dell’ortodossia marxista, ha messo in rilievo l’effettivo antagonismo fra l’analisi delle crisi orientata sulla base della teoria del crollo economico e l’atteggiamento sociologistico: “La prospettiva del socialismo non dipende dalla possibilità o dalla necessità di un crollo o di una decadenza futuri del capitalismo, ma dall’aspettativa, che possiamo avere, di un adeguato rafforzamento del proletariato” (cit. in Henryk Grossmann, “Das Akkumulations- und Zusammenbruchsgesetz des kapitalistischen Systems, Frankfurt/M., pag. 73).

2) Anche laddove lo stesso Marx, nei suoi scritti, sembra spianare la strada al sociologismo, resta un momento legato alla teoria del crollo, che non si adatta bene a tale sociologismo. Questo è vero in particolare per il Manifesto comunista. Mentre da un lato l’enfasi sulla lotta di classe prende la sua forma classica (“fino ad oggi la storia è stata sempre una storia di lotte di classe”) e la classe operaia viene elevata a livello di nuovo demiurgo, dall’altro Marx sceglie per il proletariato la metafora del “becchino”. Ma i becchini di solito sistemano sottoterra quel che è già morto prima senza il loro intervento.

3) K.Marx, Grundrisse, Berlin 1974, pag. 593.

4) K.Marx, Grundrisse, ibid., pag. 593

5) Nella protostoria del capitale le bancherotte di Stato si verificavano regolarmente. Ma c’è una enorme differenza se a dichiarare lo stato di insolvenza è uno Stato che agisce soltanto come consumatore di beni di lusso (Esercito, corte), e attira a se` meno del 5% della ricchezza del Paese, oppure uno Stato moderno, insostituibile per la riproduzione quotidiana sociale, che amministra tra il 40 e il 50% del prodotto sociale lordo.

6) Gli attivi di bilancio attuali negli Stati Uniti sono in contraddizione soltanto apparente con questa affermazione, perchè sono il prodotto dello spostamento della creazione di denaro senza copertura verso i mercati finanziari internazionali, e quindi di uno sviluppo parossistico del capitale fittizio, come vedremo fra poco.

7) MEW, vol. 12, pagg. 336 e seguenti.