31.12.2003 

Ormai solo il (non) lavoro ci può salvare

Una riflessione sulla produzione del gruppo Krisis

da Massimo Maggini (30/5/03)

“…Il tramonto si compie insieme mediante il crollo del mondo improntato dalla metafisica e attraverso la devastazione della terra a cui la metafisica ha dato origine. Crollo e devastazione trovano il loro coronamento adeguato nel fatto che l’uomo della metafisica, l’animal rationale, è posto e fissato come l’animale che lavora (sott.mia) … All’umanità della metafisica, l’ancora nascosta verità dell’essere è negata. L’animale da lavoro è abbandonato alla vertigine delle sue produzioni, affinché da se stesso si distrugga e si annienti nella nullità del niente”

(M.Heidegger, Saggi e discorsi, Mursia 1976, pp.46-47)

Il passo di Heidegger citato, al di là dei toni “apocalittici”, aiuta ad entrare subito nel cuore del problema. Ciò che la tradizione filosofica, in particolar modo quella illuministica ed empiristica, definisce “animal rationale” [1] – ovvero l’essere umano – diviene come esito finale di questo percorso animal laborans, colui la cui essenza si risolve nel lavoro. Non è questo il luogo per ripercorrere la strada che porta a questa tragica conclusione, tantomeno è possibile capire qui ed ora perché “l’animale razionale” possa e debba divenire “l’animale che lavora”. Basti per adesso considerare questa indubbia verità: che da qualche tempo a questa parte l’essere umano “vale”, cioè “è”, solo se lavora o comunque ha a che fare, in qualche modo, con il lavoro.

Il lavoro è diventato, oramai da lungo tempo, il metro attraverso cui misurare ogni cosa. Non è certo un caso che questo assioma inizi a valere a partire dalla cosiddetta rivoluzione industriale. Il circolo poco virtuoso che racchiude lavoro e capitale è ben noto. Meno noti sono invece alcuni sviluppi di teorie sul non-lavoro, o meglio contro il lavoro, che sono fiorite negli ultimi anni soprattutto in Germania, e che cominciano solo ora a farsi sentire anche nel resto d’Europa. È il caso del gruppo “Krisis”.

Questo gruppo, il cui più noto autore è Robert Kurz – i cui libri riscontrano un certo successo in Germania ma non solo – lavora da alcuni anni sulla tematica della crisi del capitalismo e della fine del lavoro. [2] Prima di inoltrarmi nell’analisi, voglio però premettere che non sono un apologeta né un lettore acritico di tutto ciò che proviene da questo gruppo. Trovo tuttavia che le loro teorie abbiano diritto di cittadinanza nel panorama intellettuale italiano almeno quanto quelle di un Gorz, di un Aznar, del Reddito di Cittadinanza, del “lavorare meno lavorare tutti” o del rifiuto del lavoro di operistica memoria, per non parlare dell’interessantissima “etica hacker” alla finlandese. [3] Credo anzi che proprio dal colloquio tra queste dimensioni teoriche possa nascere un pensiero all’altezza dei tempi. Per questo ritengo utile e importante far circolare le teorie del gruppo Krisis, e comprendo poco una certa ostilità di principio ad esse riservata, soprattutto in Italia.

Il manifesto contro il lavoro

Ma che cosa teorizza questo gruppo?

Per entrare nel merito della cosa, niente di meglio che farci una passeggiata all’interno del loro testo più divulgativo, il Manifest gegen die Arbeit (Manifesto contro il lavoro), finalmente apparso anche in Italiano per i tipi di Derive/Approdi. [4]

Questo testo riassume, talvolta inevitabilmente semplificando, i nodi cruciali del discorso di Krisis – discorso che comunque si estende e dettaglia in una enorme mole di altre opere, la maggior parte delle quali disponibili sul loro sito www.krisis.org anche se, purtroppo, per lo più solo in tedesco.

La tesi da cui parte il Manifest – che è poi quella più propria del gruppo stesso – è che oggi, dopo quella che loro chiamano la “rivoluzione microelettronica”, è possibile affermare che “il lavoro è morto”.

Un cadavere domina la società: il cadavere del lavoro. Tutte le potenze del pianeta si sono alleate per difendere questo dominio: il Papa e la Banca mondiale, Tony Blair e Joerg Haider, D’Alema e Berlusconi, sindacati e imprenditori, ecologisti tedeschi e socialisti francesi. Tutti costoro conoscono soltanto una parola d’ordine: lavoro, lavoro, lavoro!

Chi non ha ancora del tutto disimparato a pensare, si rende facilmente conto che questa posizione è del tutto infondata. Infatti la società dominata dal lavoro non sta vivendo una crisi passeggera, ma si scontra con i suoi limiti assoluti. In seguito alla rivoluzione microelettronica, la produzione di ricchezza si è sempre più separata dall’utilizzo di forza-lavoro umana, e in una misura tale che fino a pochi decenni fa era immaginabile soltanto nei romanzi di fantascienza. Nessuno può seriamente affermare che questo processo possa fermarsi o addirittura essere invertito. La vendita della merce “forza-lavoro” sarà nel ventunesimo secolo tanto ricca di prospettive quanto nel ventesimo la vendita di diligenze. Ma chi in questa società non riesce a vendere la sua forza-lavoro è considerato “superfluo” e finisce nelle discariche sociali. (M, 5/6)

Per inciso, anche se non sempre il gruppo Krisis esplicita ciò che intende per “lavoro”, va detto che il “lavoro” che è “morto” è quello imposto dalla rivoluzione industriale in poi, che aliena gli esseri umani da se stessi e dagli altri ed ha come unico scopo la realizzazione di valore-merce ai fini dello scambio in vista di un accumulo continuo di plusvalore. Secondo Krisis, questo lavoro non ha più gambe su cui sorreggersi, perché i margini di estrazione di plusvalore si sono erosi in modo irreversibile e definitivo con quella che il gruppo tedesco chiama “la rivoluzione microelettronica”. Questa sorta di “III rivoluzione industriale” comporterebbe l’allontanamento definitivo di lavoro vivo in favore di un uso massiccio di lavoro morto nella produzione, con una conseguente drastica riduzione – secondo Krisis irrecuperabile – della possibilità di estrarre plusvalore come frutto finale del processo lavorativo. Con queste osservazioni, è possibile rispondere anche a chi sostiene che Krisis voglia attaccare il “lavoro” meramente inteso come luogo e spazio di alienazione psico-fisica. Nessuno vuole qui negare che si possa trovare soddisfazione o realizzazione nel proprio lavoro. Questa gratificazione nel proprio operare però, nell’ottica di Krisis, non è possibile entro ciò che viene oggi definito “lavoro” – parola dunque con la quale essi non pensano qualcosa di diverso dal lavoro capitalistico – ma solo in quell’attività che ognuno svolge per propria soddisfazione e liberamente. Un’attività magari non dissimile da quella svolta nel mondo del lavoro coatto, ma con la sostanziale differenza di essere libera, creativa e veramente produttiva e utile per tutti, con propri tempi e modi – il che, per mettere subito le mani avanti, è molto diverso dal dire che si tratti fondamentalmente di una sorta di “auto-sfruttamento”. [5]

L’imperialismo del lavoro si riflette dunque nell’uso linguistico quotidiano. Non solo siamo abituati a usare la parola “lavoro” in maniera inflazionistica, ma anche su due livelli di significato completamente diversi. Da tempo ormai, il termine “lavoro” non designa più soltanto (come sarebbe giusto)  la forma di attività capitalistica nella fatica tautologica, ma questo concetto è addirittura diventato un sinonimo per ogni sforzo diretto a realizzare un obiettivo, facendo così perdere le sue tracce. (M, 47)

Ma non anticipiamo troppo, e torniamo all’inizio: il lavoro, dunque, è morto. Ma la società del lavoro non può e non vuole riconoscerlo. Non può perché ha bisogno del sistema del lavoro per continuare ad esistere, non vuole perché significherebbe riconoscere la propria precarietà e la propria storicità. Si continua così ad esistere e ad essere riconosciuti come esseri umani solo in quanto “forza-lavoro”, impiegata o meno che sia, e se non riusciamo a venderci come tale, finiamo per perdere ogni diritto di cittadinanza. Ovviamente, il potere ha il suo bel daffare per mantenere questo climax di oppressione laburista: i media lavorano a pieno ritmo, e tutta la scienza e la sapienza ufficiali si fanno in quattro per tenere la gente sotto questo torchio. Il dato “oggettivo” della fine del lavoro viene rovesciato e fatto apparire come fallimento soggettivo, favorendo ad arte la colpevolizzazione di sé e una generale demoralizzazione.

Quanto più è evidente che la società del lavoro è veramente giunta alla fine, tanto più violentemente questo fatto viene rimosso dalla coscienza collettiva. Per quanto diversi siano i metodi di rimozione, hanno pur sempre un denominatore comune: il dato di fatto, valido globalmente, che il lavoro si sta rivelando un fine in sé irrazionale e ormai obsoleto, viene ridefinito con ostinazione maniacale come il fallimento di individui, imprese o “siti produttivi”. Il limite oggettivo del lavoro deve apparire come un problema soggettivo degli esclusi. (M, 6)

Tutto ciò alimenta quello che Krisis chiama l’apartheid sociale, ovvero un sistema sociale dove solo un’élite (di solito decantata come più brava, più capace, e via dicendo) riesce a trovare un posto al sole, mentre alla gran parte degli esclusi non resta che finire ai margini della società. I rifiuti della magnifica e ricca società del lavoro finiscono spesso preda di epifenomeni di questa società stessa, come mafie, chiese o associazioni, con tutte le mefitiche conseguenze che ben conosciamo. Vero anche che, specialmente secondo teorie marcusiane e francofortesi, proprio questi “rifiuti” possono diventare potenziali rivoluzionari ed eversori del sistema. Ma questo purtroppo, specie ora, è più vero in teoria che in pratica. Il potere, soprattutto grazie al capillare lavoro dei media, riesce spesso con successo a mettere a tacere tutte le istanze veramente rivoluzionarie, smontandone la carica innovativa e liberatoria, e questo ad onor del vero con una parte molto attiva svolta dalle sinistre di tutto il mondo – proprio da coloro cioè che dovrebbero promuovere i movimenti emancipatori.

Veniamo proprio alla sinistra, visto che è stata chiamata in causa. Tradizionalmente favorevole all’assunto su cui basa il suo essere la società del capitale, e cioè quello per cui un uomo senza un lavoro non è un uomo, si agita in questo mare aperto della crisi del sistema come un bove impazzito. Là dove può e dove conviene, aziona tutte le sue armi socialdemocratiche, con risultati penosi e dispendi assurdi; al tempo stesso partecipa alla gestione della crisi nella speranza di afferrare la fetta quanto più grande possibile della torta rimasta, spesso in competizione con pescecani più avidi e più capaci di lei. Dove è invece insuperabile è nel controllo sociale, che di solito le viene infatti affidato.

Fu il movimento dei lavoratori, nel XIX secolo e all’inizio del XX, a imporre contro gli ottusi borghesi ulteriori livelli di depersonalizzazione nello sviluppo del lavoro,  come un secolo prima la borghesia aveva avuto in eredità il sistema assolutistico. E questo fu possibile soltanto perché i partiti dei lavoratori e i sindacati avevano avuto, nella loro adorazione del dio lavoro, una relazione positiva anche con l’apparato statale e con le istituzioni della gestione repressiva del lavoro. Non volevano più abolirli, ma occuparli, in una sorta di “lunga marcia attraverso le istituzioni”. (M, 32)

Il ruolo di gendarme sociale le si addice molto bene, visto l’ascendente che, nonostante tutto, riesce ancora ad esercitare sulla gente. Ma l’agitarsi del potere non sarà capace, secondo Krisis, di mascherare né differire ulteriormente ciò che si sta manifestando come crisi irreversibile del lavoro, e quindi della società della merce.

Restiamo ancora un attimo sulla sinistra e le sue mistificazioni: anche storicamente solo in apparenza la sinistra si è contrapposta al capitale. In realtà condivide da sempre con esso la venerazione del lavoro. Al massimo si è talvolta opposta allo sfruttamento del lavoro, non certo al sistema del lavoro stesso. La sinistra ha sempre parlato in favore della liberazione “del” lavoro, e non “dal” lavoro. Non ha mai messo seriamente in questione ciò che il lavoro produce, né perché lo produce. Ha invece spesso predicato la cieca difesa del “posto di lavoro” e la “necessaria” ricerca di una “occupazione per tutti”, sbandierata come sola garanzia per l’indipendenza e l’autonomia della singola persona.

La sinistra politica ha sempre venerato il lavoro con particolare zelo. Non soltanto ha elevato il lavoro a essenza dell’uomo, ma ne ha anche fatto, in maniera mistificante, il presunto principio opposto a quello del capitale. Per la sinistra lo scandalo non era il lavoro, ma soltanto il suo sfruttamento da parte del capitale. Perciò, il programma di tutti i “Partiti dei lavoratori” fu sempre la “liberazione del lavoro” e non la “liberazione dal lavoro”. La contrapposizione sociale tra capitale e lavoro è però soltanto la contrapposizione di diversi (anche se diversamente potenti) interessi all’interno del fine tautologico del capitalismo. La lotta di classe fu la forma con cui questi interessi contrapposti si scontrarono sul comune terreno sociale del sistema produttore di merci. Fu un elemento interno alla dinamica di valorizzazione del capitale. Non importa se la battaglia fu combattuta per i salari, i diritti, le condizioni di lavoro o i posti di lavoro; il suo cieco presupposto rimase sempre il dominio del lavoro con i suoi irrazionali principi. (M, 20)

La verità è che la sinistra proviene dalla stessa madre da cui nasce il capitalismo, e non è mai stata veramente antagonista ad esso, tantomeno il soggetto dell’emancipazione umana. Un orizzonte di liberazione deve dunque essere capace di guardare oltre la sinistra, così come superare il suo riflesso speculare – il capitalismo – e camminare verso una società senza lavoro, in direzione cioè di quel progetto rivoluzionario che per primo Marx ha sistematicamente delineato e pensato come comunismo. [6]

“Oltre la disperazione dell’esistente, verso il comunismo”

(vecchia scritta su un muro della fortezza nuova di Livorno)

Seguendo sempre il Manifest, torniamo ora nel merito del lavoro: a sostegno della sua orrida impalcatura, la società del lavoro ha creato ambiti a latere che seguono passo dopo passo lo svolgersi della normale frenesia quotidiana, pur non partecipandovi direttamente, e senza i quali la stessa società del lavoro avrebbe grosse difficoltà a riprodursi. Si tratta degli ambiti della famiglia e dell’intimità, di ciò che di solito viene identificato con l’ambito classico delle “attività femminili”. In questo spazio “altro” ma complementare al lavoro si sono saldati gli stereotipi della donna madre, istinto e “natura”, e dell’uomo padre, lavoratore e razionale. Stereotipi che perdurano nonostante i – comunque lievi – cambiamenti sociali avvenuti tra i sessi, e che continuano a portare miseria ed infelicità ad ogni singola persona, impedendone una piena realizzazione. All’uomo, infatti, viene riservato l’ambito della forza, privandolo del suo essere emotivo e sentimentale, mentre alla donna vengono affidati proprio questi ultimi, collocati ad un livello di importanza inferiore rispetto alle esigenze del lavoro e della produzione – dominio appunto dell’uomo – e relegati nel cerchio infernale della ri-produzione.

Nel complesso sociale la sfera della cosiddetta vita privata e familiare, santificata dall’ideologia borghese, in realtà viene sempre più svuotata e degradata, perché l’usurpazione operata dalla società del lavoro coinvolge ormai l’intera persona, il sacrificio totale, la mobilità e la flessibilità degli orari. Il patriarcato non viene abolito, ma si imbarbarisce nella crisi inconfessata della società del lavoro. Nella stessa misura in cui il sistema  produttore di merci va in pezzi, le donne vengono rese responsabili della sopravvivenza su tutti i piani, mentre il mondo “maschile” allunga fittiziamente la vita alle categorie della società del lavoro. (M, 24)

Paradossalmente, la donna al lavoro – in questo contesto – è doppiamente fregata: ferma restando la scissione fra le due sfere, essa subisce infatti i diktat di entrambe. La soluzione anche qui può esser trovata solo nella società del non-lavoro, in una società “altra” dove la sfera affettiva venga riconciliata con l’essere sociale.

Questa società “altra” non è certo di facile costruzione. Tuttavia, rappresenta agli occhi di Krisis l’unica soluzione reale. Questa possibilità appare meno peregrina se si tiene fermo un punto importante, che informa tutta la teoria di Krisis: il capitalismo deve essere considerato come un fenomeno storico, e non come l’esito finale della storia. Un fenomeno sicuramente di portata enorme, tuttavia con un inizio e, con ogni probabilità, una fine, come accade a tutti gli eventi storici, per quanto rilevanti possano essere. Una fine, tuttavia, i cui esiti sono al momento tutt’altro che chiari e decisi.

Dal punto di vista di Krisis, il capitalismo è storicamente nato proprio con l’imposizione del lavoro. Senza voler proporre alcuna visione nostalgica del passato, occorre riconoscere che questo “fine tautologico” (il “lavoro” per come lo conosciamo noi oggi) in altre epoche non esisteva affatto. Solo con la violenza e la forza gli stati assolutistici, in espansione e alla ricerca di sempre più denaro per i loro infami scopi, riuscirono ad imporre questo nuovo status.

La maggior parte degli uomini non è passata spontaneamente alla produzione per mercati anonimi, e dunque alla generale economia monetaria, ma perché l’avidità degli Stati assolutistici monetarizzò le tasse e contemporaneamente le aumentò in maniera esorbitante. La maggior parte degli uomini dovette “guadagnare soldi” non per sé, ma per lo Stato proto-moderno militarizzato e le sue armi da fuoco, la sua logistica e la sua burocrazia. Così è venuto al mondo l’assurdo fine in sé della valorizzazione del capitale, e quindi del lavoro.(M, 26/27)

Solo da allora l’uomo è diventato “materiale umano” e infine “risorsa” utilizzabile per la valorizzazione del capitale. Solo da allora, il tempo ha cominciato a “scarseggiare” e ad essere equiparato al “denaro”.

Il movimento dei lavoratori nasce solo dopo che il movimento contro il lavoro (ad esempio, i luddisti) fu definitivamente sconfitto. Tale movimento, dei lavoratori, ha in genere assunto positivamente i criteri della valorizzazione imposti dal capitale, arrivando tutt’al più ad aggredire la borghesia in quanto accusata di esser “parassita” del lavoro, e non certo in nome della liberazione dal lavoro. Con questo movimento nacquero nuove esigenze di gestione del mondo improntato al lavoro: un democrazia (partecipazione di tutti alle scelte di gestione) sociale (per appianare le difficoltà di gestione). Ovvero, la socialdemocrazia, il più perfido sistema di dominio della storia, un terribile inganno per i proletari e gli sfruttati di tutti i paesi.

L’ideologia di una generalizzazione sociale del lavoro richiedeva però anche un nuovo sistema politico. Al posto della suddivisione in ceti  con differenti “diritti” politici (per esempio il diritto di voto censitario) vigente nella società dove il lavoro si era imposto solo in parte, dovette farsi strada  la generale uguaglianza democratica nello “Stato del lavoro” compiuto. E le irregolarità nel funzionamento della macchina della valorizzazione, non appena questa determinò l’intera vita sociale, dovettero essere appianate con lo “Stato sociale”. E anche di questo processo il movimento dei lavoratori offrì il modello. Con il nome di “socialdemocrazia” diventò il più grande “movimento dei cittadini” della storia, che però si rivelò soltanto un autoinganno. Infatti in democrazia tutto è trattabile, tranne i vincoli della società del lavoro, che invece sono presupposti come un assioma. (M, 32/33)

Ma, sostiene Krisis, questo sistema sta attraversando una crisi senza ritorno. Non saranno le simulazioni di benessere mediatiche o il rigonfiamento artificiale della bolla finanziaria a salvarlo. Tutto ciò potrà al massimo differire la crisi, non evitarla. La soluzione, piuttosto, va cercata altrove. Occorre essere capaci di immaginare e costruire una società senza lavoro. All’uomo di oggi, abituato alle costrizioni del lavoro e a trovare in esso le sue fonti di senso, apparirà un’impresa enorme se non impossibile. Tuttavia, l’emancipazione sociale può passare solo da una “consapevole svalorizzazione del lavoro”. Rompere con la categoria del lavoro sarà comunque difficile. Il punto di partenza deve perciò essere il “rifiuto”, la non-accettazione dei diktat della produzione. “Bisogna spezzare il monopolio tenuto dal ‘campo del lavoro’ sull’interpretazione del mondo”. (M, 54) Si tratta di rompere questo dominio – materiale, culturale e psicologico – e riappropriarci di un rapporto diverso con il mondo, la natura e gli altri.

Dopo secoli di ammaestramento, l’uomo moderno non è più in grado, d’immaginarsi una vita pura e semplice al di là del lavoro. In quanto principio assoluto, il lavoro domina non soltanto la sfera dell’economia in senso stretto, ma penetra nell’intera esistenza sociale, fino a toccare i minimi dettagli della vita quotidiana e dell’esistenza privata. Perfino il “tempo libero”, il cui significato letterale definisce di per sé un concetto carcerario, serve ormai a “smaltire” beni, e provvedere così al loro indispensabile smercio. (M, 45/46)

La rottura con la categoria del “lavoro” non troverà delle parti sociali pronte e obiettivamente determinate come ne trovava il conflitto fra gli interessi immanenti al sistema. Si tratta di una rottura con la legalità falsamente oggettiva di una “seconda natura”: dunque non un’altra realizzazione quasi automatica, ma una coscienza che nega – un rifiuto e una ribellione che non hanno dietro di sé nessuna “legge della storia”. Il punto di partenza non può essere un nuovo principio astratto generale, ma soltanto il disgusto di fronte alla propria esistenza come soggetto del lavoro e della concorrenza, e il rifiuto di continuare a funzionare così a un livello sempre più misero. (M, 54)

Sorge qui spontanea la domanda sul “come”. Si fa presto a dire cosa non va, ma in positivo, per costruire questo “altro” mondo, cosa dobbiamo fare, come possiamo agire? Domanda annosa, che mette oggi più che mai in crisi più di un critico della società capitalistica, sin dai tempi di Marx non ha mai trovato, di fatto, una chiara risposta progettuale. Ma forse non può essere altrimenti, forse non è possibile anticipare la risposta, poiché non può essere trovata a tavolino, ma solo nella “pratica di rovesciamento” del sistema.

Si può in ogni caso provare a tratteggiare alcune linee direttrici di azione. Vediamo cosa ci dice Krisis al proposito: innanzitutto occorre formare alleanze mondiali di antilavoristi capaci di strappare i mezzi di produzione alla macchina del lavoro e di prenderne il controllo. Insieme, attaccare il modello della “proprietà privata” – vecchio schema di lotta contro il capitale ingiustamente dimenticato oggi. Al sistema dissennato di produzione delle merci deve sostituirsi un uso sensato delle risorse, organizzato direttamente dai membri della società. Lo stato e il mercato non avranno a questo punto più ragione di esistere, e potranno essere sostituiti da un sistema di “consigli” in connessione tra loro. In una società mondiale unita ed aperta, senza più confini e dove ognuno possa muoversi liberamente entro una cultura dell’otium, non più caratterizzata dalla produzione insensata ai fini dell’accumulo di plusvalore, ma da una cosciente creazione di beni e opere finalmente utili ed equamente ripartiti, diventa inutile anche l’astrazione denaro.

Il programma contro il lavoro non si alimenta con un canone di principi positivi, ma con la forza della negazione. Se l’affermazione del lavoro è andata di pari passo con l’espropriazione totale della persona e delle sue condizioni di vita, la negazione della società del lavoro può consistere soltanto nella riappropriazione, da parte della persona, del proprio nesso sociale con gli altri a un livello storico più elevato. Perciò gli avversari del lavoro punteranno alla formazione di alleanze di portata mondiale fra individui associati liberamente, che strapperanno i mezzi di produzione e di esistenza alla macchina del lavoro e della valorizzazione – che gira ormai a vuoto – e ne prenderanno il controllo. Soltanto nella battaglia contro la monopolizzazione di tutte le risorse sociali e di ogni potenziale di ricchezza da parte dei poteri alienati, cioè mercato e Stato, si potranno conquistare spazi sociali di emancipazione. (M, 55)

Non sarà più il fine tautologico del lavoro e dell'”occupazione” a determinare la vita, ma l’organizzazione dell’uso sensato delle possibilità comuni, che non vengono dirette da una “mano invisibile” automatica, ma dall’agire sociale cosciente. Ci si approprierà direttamente della ricchezza prodotta secondo i bisogni, non secondo la “solvibilità”. Insieme con il lavoro scompariranno l’astratta universalità del denaro e quella dello Stato. Al posto delle nazioni divise, ci sarà una società mondiale che non avrà più bisogno di confini, nella quale tutti gli uomini si muoveranno liberamente e potranno esigere il diritto universale di ospitalità in qualsiasi regione del globo. (M, 56/57)

Le solite uscite utopiche senza fondamento? I soliti fumosi vaneggiamenti piccolo borghesi? Può darsi, nessuno vuole qui negare né affermare nulla una volta per tutte. Ma, a parte il fatto che l’umanità le cose migliori le ha fatte proprio partendo da sogni, non si può non stupirci di come, per contro, riesca a funzionare e a monopolizzare ogni anfratto del possibile proprio l’utopia opposta, quella negativa del capitale. Questa “utopia negativa” si è ben realizzata, e la sua efficacia è innegabile: un sistema che provoca miseria, morte, malattie, alienazione e desertifica il mondo.

Ma la fine della società del capitale/lavoro, per Krisis, è tutt’altro che un’utopia – se con questo termine si vuole intendere un fine irraggiungibile e vago. È una possibilità ben concreta. Questo in particolar modo oggi perché, secondo il gruppo tedesco, i meccanismi di questa società sono ormai al tracollo. Questo processo tuttavia, se non ostacolato e indirizzato, finirà per provocare un imbarbarimento dei rapporti sociali a tutti i livelli. La critica del lavoro diventa così indispensabile come alternativa alla barbarie. Questa critica propone l’auto-determinazione e l’auto-organizzazione contro lo stato, il cui status di controllore non potrà che intensificarsi nella crisi, e la politica, ad esso legata, dei garanti della società del lavoro. “Occorre legare le forme di una contro-società con il rifiuto aperto del lavoro” (M, 64). In fondo, ancora una volta non abbiamo da perdere che le nostre catene, e scusate se è poco.

Alcuni legittimi dubbi (e alcune legittime risposte)

Naturalmente, come ogni opera che si rispetti, anche il “Manifesto contro il lavoro” fa sorgere alcuni dubbi, in genere più che legittimi. Senza la pretesa di esaurirli, proviamo qui ad affrontarne qualcuno, e magari anche a dar loro alcune altrettanto legittime risposte.

Un primo dubbio, che ci assale sin dal primo momento in cui affrontiamo la lettura, riguarda senz’altro la questione della “fine del lavoro”. È possibile oggi affermare seriamente qualcosa come “il lavoro è morto”? Ha senso dire una cosa del genere, oggi che tutti siamo “al lavoro”? Dire che oggi il lavoro, per come era richiesto prima della società capitalistica non informatizzata, non è più necessario, non è una madornale ingenuità? Non significa farsi ingannare dalle mosse del capitale multinazionale, che disloca la produzione, e quindi il lavoro, là dove è per lui più conveniente? Non significa anche travisare quella che è l’essenza più genuina del capitalismo, ovvero il fatto che da sempre esso si fonda su lavoro non necessario? Il lavoro, nel senso capitalistico del termine, in realtà non è mai stato veramente necessario (almeno non nel senso dei bisogni dell’uomo). Nei modi e nei tempi in cui lo ha posto la rivoluzione industriale, il lavoro è sempre stato una violenta imposizione. È quindi assurdo giudicarlo oggi obsoleto a causa della cosiddetta “rivoluzione microelettronica”. Ancora oggi milioni di immigrati, e non solo, lavorano nei laboratori e nelle cantine delle multinazionali occidentali, sottopagati e senza alcuna tutela. Il lavoro di oggi è quello di sempre, e quindi parlare della sua “fine” è ridicolo.

Seconda obiezione: sulla sinistra. Sparare a zero sulla sinistra, sul movimento operaio e la sua storia non è un’arma che si ritorce contro? Di fatto, molti movimenti di sinistra hanno lottato per migliorare le condizioni di lavoro, per ridurre la giornata lavorativa, per ottenere diritti per i lavoratori altrimenti impensabili. Senz’altro tutto ciò ha nociuto ai fini dell’accumulazione del capitale. Perché dunque sputarci sopra? Non può essere, piuttosto, ancora una volta il movimento operaio e più in generale la sinistra il motore del “rifiuto del lavoro” assumendolo come nuova istanza rivoluzionaria? Se, insomma, non fosse la sinistra il problema, ma al contrario la sua mancanza, il fatto cioè che oggi quello che manca è  una vera e propria sinistra? Una sinistra capace anche di appropriarsi dell’apparato statale, invece di rigettarlo tout court, e rovesciarne la politica in favore della gente?

Terza obiezione: la carenza della parte progettuale. Indubbiamente questo è il lato più debole di tutta la vicenda. Di “comunità autosufficienti” e “cooperanti” che si appropriano della ricchezza sociale a favore di tutti sono pieni i libri. Questo antico sogno, proprio già dei più antichi movimenti utopistici, viene giustamente sbeffeggiato da Marx ed Engels sul “Manifesto del partito comunista” e nell'”Ideologia tedesca”. Un esito così vago rilascia un cono d’ombra anche sul resto del discorso di Krisis. Se tutto il ritornello sulla fine del lavoro non sa proporre niente di più di questo anacronistico e ridicolo appellarsi a comunità di liberi individui che, illuminate da una salvifica presa di coscienza collettiva, salveranno il mondo, forse non andremo molto lontani per questa strada.

Quarta obiezione: ancora sulla questione del lavoro. Poniamo che si riesca a convincere tutti che siamo arrivati all’epoca della “fine del lavoro” e a coinvolgere un sacco di gente in un progetto di liberazione che si fondi sull’uscita dal mondo strutturato sul lavoro. Ma alla resa dei conti, sarebbe veramente possibile ipotizzare un mondo senza lavoro? Già il senso comune qui obietta con vigore: “se nessuno lavora, come si fa a vivere? Come fanno le cose ad andare avanti”? Se qualcuno non lavora la terra, come facciamo a mangiare il pane? Se qualcuno non fila i tessuti, come facciamo a vestirci? E via dicendo. In pratica, ciò che si scoprirebbe alla fine è che del lavoro non si può fare a meno. Magari si può riformarlo, distribuirlo più razionalmente, produrre cose sensate ecc. Ma parlare di fine del lavoro, più che un’utopia, è un’autentica idiozia. Senza considerare che per molti il proprio lavoro è una fonte di soddisfazione e di piacere irrinunciabile, un luogo entro il quale è possibile trovare piena realizzazione di sé e delle proprie capacità.

Quinta ed ultima obiezione: l’abolizione del denaro. Fra tutte le esagerazioni di questo testo, questa appare forse la più marchiana. Sempre il buon senso per primo si ribella: “come è possibile vivere senza il denaro, specie nella nostra epoca? Come possiamo comprare e vendere cose, in una parola scambiarci beni e servizi, senza usare il denaro?” Se voglio andare in pizzeria, con cosa pago la pizza? Se ho voglia di vedere un film, con cosa pago il biglietto? Non possiamo certo tornare allo scambio di beni tra loro, o pensare di usare conchiglie e sassi che sostituiscano il denaro. Oppure si pensa che nell’ipotetico mondo del non-lavoro, nella società liberata vi sarà un tale livello di socialità che ovunque sorgeranno bracieri per festini improvvisati e nessuno sentirà più l’esigenza di andare in pizzeria? O vi saranno schermi su tutte le piazze per vedere i più bei film dell’umanità? In altre parole, l’idea dell’abolizione del denaro sembra la più assurda di tutte, e questa da sola dovrebbe bastare a far recedere qualsiasi sano intelletto dal prendere anche solo un pochino sul serio il discorso di Krisis contro il lavoro.

Termino qui con le obiezioni, parziali e incomplete, che in realtà non sono proprio un mio parto ex-novo, ma in qualche modo provano a riassumere vari commenti sentiti in giro dopo la lettura del “Manifesto”.

Proviamo ora, prima di chiudere, a vedere quali potrebbero essere le legittime risposte, anch’esse non conclusive, a queste senz’altro legittimissime obiezioni.

La prima: da un punto di vista razionale, il discorso sulla fine del lavoro segue in realtà una sua rigorosa logica. [7] Un tipo di produzione non più legato a schemi del passato, dove occorreva una maggior manodopera, ma determinato oggi da in larga parte da processi automatici o informatizzati, rende di  fatto impossibile una qualsiasi “piena occupazione” nel senso del lavoro a vita otto ore al giorno. Questo a prescindere dal fatto che il capitale abbia mai mirato o meno al “lavoro per tutti” (equivalente naturalmente, nel meccanismo capitalistico a “sfruttamento per tutti”). Ovviamente, affermare che oggi il lavoro per tutti è impossibile ed anche inutile non equivale certo a dire che già oggi nessuno più lavora e non vi sia necessità di lavoro per mantenere lo status quo. Affermare una simile banalità è ben lungi dalle intenzioni di Krisis. Dire invece che “il lavoro è finito” significa dire che sono definitivamente morte le condizioni per le quali è stato, a suo tempo, dichiarato necessario il lavoro meccanico, ripetitivo e senza interruzioni. Che poi possa non esser mai stato necessario, ma solo imposto ed utile ai fini dell’accumulazione capitalistica, nessuno qui lo nega, ma non è questo il punto in discussione ora. La questione è che il superamento dell’orizzonte del lavoro appare oggi più che mai un orizzonte in vista, una possibilità concreta, che è  anche possibilità di farla finita un volta per tutte con il tragico mondo mercificato del capitale. Il fatto che, come viene giustamente fatto notare da più parti, si lavori più oggi che in passato, e in condizioni molto peggiori di prima, non smentisce l’analisi di Krisis ed anzi, in qualche modo, forse la avvalora. È proprio perché, secondo il gruppo tedesco, a causa della concorrenza mondiale e della rivoluzione microelettronica sono venuti definitivamente meno i margini  per la valorizzazione del capitale, che si è tornati a forme di lavoro semi-schiavistico, rinunciando ad ogni patina di welfare e andando diretti verso lo scontro sociale. Il capitale proverebbe cioè questa carta per tenere alti i margini di sfruttamento del plus-valore, che solo in questo modo – cioè tagliando i costi, soprattutto quello del lavoro – possono rimanere alti. Ma, affermano quelli di Krisis, questo gioco, riuscito spesso in passato, oggi non è più possibile. Il capitalismo si sta scontrando con il suo “limite assoluto”, e l’unica via d’uscita è, per usare un vecchio motto, la catastrofe o il comunismo.

Secondo punto: la questione della sinistra. È ben vero che una parte del movimento operaio, in genere minoritaria, è stata un movimento contro il lavoro. Il sabotaggio e il rifiuto del lavoro predicati dagli anni ’60 fino all’inizio degli anni ’80, solo per fare un esempio, sicuramente avevano molto in comune con le attuali tesi di Krisis, e non si vede il motivo per il quale dovremmo scaricare e dimenticare questa bella tradizione ed anzi non trarne istruttivi insegnamenti. Solo che qui occorre usare termini diversi: più che di movimenti di sinistra, si è trattato di un movimento verso il comunismo, un movimento essenzialmente anti-statalista, anti-lavorista e di liberazione, esattamente il contrario di ciò che caratterizza in genere la sinistra. La sinistra, che per tradizione culturale e storia affonda le proprie radici nella socialdemocrazia, è essenzialmente un apparato congegnato in funzione delle riforme, in vista di uno stato più “buono” e sociale, di un lavoro più tollerabile e giusto e una codificazione dei diritti e dei doveri più equa e democratica. Tutto questo è naturalmente molto bello, ma non mette minimamente in crisi il capitalismo, ed anzi può sostenerlo nei suoi momenti di maggior défaillance. Si pensi alle misure keynesiane del dopo guerra o al welfare come arma di controllo dei movimenti sociali: che cosa sono se non un efficace modo per tamponare le falle enormi che in certi momenti si sono aperte nello scafo malandato del capitale, e al tempo stesso la carotina per le masse inferocite e possibile preda della rivoluzione comunista? Ovviamente nessuno vuole qui sputare sopra allo stato sociale e alle sue facilitazioni, ed anzi può essere tatticamente utile incoraggiarlo e promuoverlo. Ma la liberazione comunista è un’altra cosa. Il discorso di Krisis sulla sinistra e il movimento operaio va proprio contro questo tipo di sinistra e di movimento operaio, e indica invece, spesso ammettiamo non in modo chiaro, ancora una volta verso il progetto originario del comunismo.

Passiamo alla terza obiezione: scarsa progettualità. Punto decisamente dolente, dobbiamo però riconoscere, in tutta onestà, che non lo è solo per il discorso di Krisis. Sin dagli albori delle istanze rivoluzionarie e di liberazione, il problema del “come sarà dopo” ha rappresentato una sorta di limite delle teorie rivoluzionarie e un problema irrisolto. Si pensi al progetto anarchico di trasformazione della società, o alle utopie socialisticheggianti alla Morris, ma anche la Che fare di Lenin o alla NEP. L’unico che ha cercato di porre su un piano più scientifico il progetto di una nuova società è senz’altro stato Marx. Ma anche lui, capace come nessun altro di svelare i meccanismi dell’accumulo del capitale e dello sfruttamento del lavoro, non è andato molto più in là quando si è trattato di delineare i tratti della nuova società comunista. I tentativi concreti poi realizzati, dalla rivoluzione leninista ai vari regimi a conduzione socialista nati dopo di questa, lasciano a dir poco a desiderare. Dunque, perché accusare proprio Krisis di una debolezza per quanto riguarda la parte progettuale? È stato spesso notato come, di fatto, non sia possibile delineare sin da subito ciò che sarà la nuova società. Questa famosa “nuova società”, come l’altrettanto celebre “uomo nuovo”, sono in realtà improgettabili, almeno al modo in cui si intende oggi “progettare qualcosa”. Non è certo possibile delinearne i confini e la forma come si trattasse di disegnare una mappa catastale. È pensabile solo in termini diversi e forse solo apparentemente più vaghi: per esempio nelle sue linee guida fondamentali (fine della proprietà privata, comunione di risorse e beni, libertà e reale possibilità di accesso per tutti a queste risorse, loro uso sensato e mirato, fine di ogni sfruttamento, un diverso rapporto con il mondo e con gli altri, ecc.). Diversamente ne andrebbe meno la costitutiva libertà che deve assolutamente caratterizzare questo nuovo stato delle cose, e se va di mezzo quella, ogni progetto di liberazione naufraga ancora prima di cominciare. [8]

Sulla quarta obiezione, la risposta è in un certo senso semplice: nessuno afferma che, di punto in bianco, l’intera società smetterà di produrre beni e che finiremo in quattro e quattr’otto per ritrovarci in un mondo apatico e pigro, pieno di ragnatele e nullafacenti che invadono le strade strascicandosi in attesa della morte. Questa immagine demenziale, che appare agli occhi di qualsiasi persona ragionevole del tutto esagerata ed assurda, viene incredibilmente sovente sventolata come prima risposta alle tesi del non-lavoro, naturalmente con particolare insistenza proprio dai sostenitori dell’attuale sistema del lavoro, i quali sono disposti tutt’al più a vederne un possibile miglioramento, non certo un suo rovesciamento o una sua radicale trasformazione. In realtà la produzione di pane o di pizze non cesserebbe, né quella di vestiti o biciclette. Cesserebbero invece lo spreco che caratterizza il sistema attuale della produzione, l’assurda e inutile costrizione al lavoro, il suo sfruttamento e l’incredibile inutile dispendio di energie e tempo per il fine “tautologico” del lavoro. Ovvero, si cesserebbe di scavare buche per poi riempirle di nuovo, e si farebbe solo ciò che è veramente utile alla vita, escludendo le miriadi di produzioni e occupazioni dannose – dal ragioniere alla fabbrica d’armi, dal funzionario statale alla produzione di automobili, dall’agente finanziario al soldato – che devastano oggi la vita e il mondo. L’inutile sovrapproduzione e l’iniqua distribuzione di oggi sarebbero le prime a cadere, per giungere poi ad una produzione sensata e mirata. Sia chiaro: nessuno vuol tornare ad una fase pre-scientifica, tantomeno rinunciare alla capacità tecnica acquisita. Solo, un conto è esserne schiavi, un altro è rapportarvisi in modo libero e creativo. Utopia? Se vogliamo chiamarla così, perché no?

Infine, ultimo punto: sull’abolizione del denaro. Effettivamente, pensare un mondo senza denaro appare un po’ difficile. Presuppone un livello di socialità estremamente più alto e più stretto di quello attuale, che non credo si possa avere in tempi brevi. Tuttavia, non bisogna dimenticare che per la maggior parte della sua storia l’umanità ha fatto tranquillamente a meno del denaro, e quando esso ha fatto parte dell’economia di un territorio, non ha mai avuto il ruolo preponderante che ha oggi, ma anzi è sempre stato relegato ai margini della società. Il denaro, inoltre, altro non è che la forma astratta che prende il valore – astratta ma, come ben sappiamo, per un altro verso anche molto concreta. Una volta venuta meno la valorizzazione, vien meno anche la necessità del denaro, o comunque la sua importanza, che non potrebbe che ridursi in modo consistente. Sbaglia, comunque, chi pensa che l’abolizione del denaro darebbe solo luogo alla rinascita di usi e mezzi “primitivi” ai fini dello scambio. Qui non si tratta di cambiare l’uso del denaro con quello di conchiglie o sassi colorati, né di tornare a scambiare una gallina per due pani. Neanche si tratta di riproporre una iperfetazione di una economia da socialismo reale, con buono pasto e buono acquisto distribuiti e regolati dallo stato. Si tratta piuttosto di un progetto ben più articolato, che non potrà vedere la luce, a mio avviso, se non come esito finale del percorso di liberazione. Perché di percorso si tratta, ovviamente. Percorso che può anche passare per misure transitorie e probabilmente insufficienti quali potrebbero essere il reddito d’esistenza o il “doppio assegno” alla Gorz, o anche le proposte di “denaro e servizi gratis” proprie di alcune frange del movimento. [9] Misure cioè che, con tutti i loro limiti, potrebbero comunque aprire spazi di tempo e di vita essenziali per permettere a questa nuova società in costruendo di trovare proprie forme e propria vita. Ma nel merito, su queste cose, lascio qui volentieri la parola al movimento, e chiudo il discorso.

Breve considerazione conclusiva non scientifica

Obiezioni e risposte, che sono una piccola parte delle possibili obiezioni e delle possibili risposte in riferimento al discorso di Krisis, sono qui state solo accennate. Altre potrebbero essere l’accusa di un eccessivo oggettivismo, o di una troppo ottimistica fiducia nel ruolo della “coscienza” nei processi liberatori. La speranza sarebbe che questi dubbi e queste obiezioni fossero una prima parte di un dibattito, magari vivace e fecondo, che si articoli e viva di vita propria. Che gli argomenti di Krisis abbiano le carte in regola per rappresentare uno stimolo e una proposta affascinanti per il nostro futuro, è per me fuor di dubbio. L’importante è aprirsi ad essi, e non rifiutarli a-priori in nome di tesi precostituite e intoccabili.

In summa, che cosa dice Krisis, che tanto scandalizza la sinistra e tanto indigeribile sembra essere per il pensiero comune? Il tentativo operato è quello di ottenere il rovesciamento del capitale sottraendogli il terreno su cui si fonda, cioè il lavoro. Questa operazione è agli occhi di Krisis oggi quanto mai necessaria, poiché il capitalismo si sta scontrando con il proprio limite assoluto e invalicabile e sta crollando, portandosi dietro tutta la società. In questo contesto, sarebbe più che mai un’illusione bella e buona pensare che si possa liberare il lavoro, così come che si possa “riformare” e “umanizzare” lo stato. Altrettanto illusorio sarebbe oggi pensare che il “Movimento operaio” potesse fare qualcosa di diverso dal difendere l’esistente, tradotto nel “posto di lavoro” – che comunque sarà sempre meno disponibile per tutti. Non è certo questo “allargamento a tutti” del lavoro ciò che interessa oggi al “movimento operaio”, ma, anzi, entrare in competizione con il proprio “concorrente” oppure con chi il lavoro non ce l’ha. È pur vero che, al di là delle organizzazioni classiche del movimento operaio, che sicuramente sono riconoscibili in questa descrizione, vi sono situazioni operaie antagoniste che mirano ad altri fini e cercano di andare in direzione opposta. Tuttavia, queste organizzazioni sembrano destinate, almeno per ora, ad un endemico minoritarismo, ed anche ad andare incontro a grosse difficoltà di tipo progettuale e propositivo. Sul fatto che il problema possa essere la mancanza di proposte all’altezza dei tempi, e che per esempio rivendicare il “lavoro fisso” possa non essere una carta adeguata da giocare, non posso né voglio pronunciarmi, e lascio volentieri a futuri dibattiti la chiarificazione della cosa – che comunque, a mio avviso, deve essere messa all’ordine del giorno, e con una certa urgenza.

Il pensiero del gruppo Krisis, poi, nega radicalmente la possibilità che una trasformazione dell’esistente possa passare da una qualsiasi riforma dello Stato o possa comunque vedere come attore principale lo Stato o la politica ad esso legata.

Naturalmente, è il caso di ribadirlo, dire “no” allo Stato non significa dire “no” ad ogni tipo di organizzazione sociale complessa, così come dire “no” al lavoro non significa dire “no” ad ogni tipo di attività organizzata, dire “no” alla democrazia non significa aprire le porte ai totalitarismi e dire “no” al denaro rinunciare a qualsiasi possibilità di scambio. Non si deve appiattire le argomentazioni di Krisis entro la stretta e classica trappola manichea del “questo o quello”, del “bianco o nero”. Non è nemmeno un aut/aut tra due poli conosciuti e solo apparentemente invalicabili. Si tratta piuttosto di compiere una sorta di “salto” anche immaginativo, per ricominciare a pensare in termini nuovi (ma forse anche antichi) un altro mondo, che in effetti sembra possibile, ma solo a patto di avere il coraggio di inaugurare una nuova radicalità, ormai da troppo tempo latitante.

Sugli esiti e la praticabilità delle argomentazioni di Krisis, il discorso resta, come deve essere, aperto. Non vi sono strade segnate, e nessuno può dire adesso quale direzione prenderanno, meno che mai quelli di Krisis. Se il mondo imboccherà la strada della liberazione o della barbarie totale, oppure se resterà in stallo entro una impasse dominata dallo stato di guerra permanente, velato o meno che sia, questo non può dirlo nessuno. Il nostro compito è, naturalmente, quello di promuovere la trasformazione in direzione di quello che una volta, preso nel pieno senso liberatorio del suo termine, veniva chiamato comunismo. Una critica complessiva alla “globalizzazione capitalistica”, in vista di un rovesciamento “globale”, non può che passare anche da una critica del lavoro. A chiunque abbia a cuore una reale liberazione, e non una timida quanto inutile “modificazione” dell’esistente, non resta dunque che giocare questa partita. Pascalianamente, è una scommessa che dobbiamo fare. Come sempre, abbiamo un mondo da guadagnare.


[1] Questa dicotomia, che rimanda a quella più generale di “corpo” ed “anima”, “materia” e “spirito”, intende la parte animale come parte inanimata, più macchina contenente che corpo autonomo. Questa macchina ha bisogno dell'”anima”, o della “ragione”, per aver volontà o solo movimento. Come dice il medico filosofo illuminista La Mettrie: “L’uomo non è altro che un animale, o un complesso di energie, che si caricano le une mediante le altre… Di conseguenza, l’anima non è altro che un principio di movimento, o una parte materiale sensibile del cervello, che si può considerare senza timore come l’energia principale di tutta la macchina” (La Mettrie: L’uomo macchina in Gli illuministi francesi a cura di P.Rossi, Loescher 1983, p.274). Oppure, Cartesio: “Si possono paragonare molto bene i nervi della macchina che vi descrivo alle tubature della macchina di questa fontana, i muscoli e i tendini agli altri vari congegni che servono a manovrarla… quando l’anima ragionevole sarà in questa macchina, avrà la sua sede principale nel cervello e sarà come l’idraulico” (Cartesio, Traité sur l’homme, Vrin, Paris 1974, p.130).

[2] I testi più importanti di Kurz apparsi in Germania sono Der Kollaps der Modernisierung, Eichborn, 1991, Schwarzbuch Kapitalismus, Eichborn, 1999, Marx lesen, Eichborn, 2000. Con Norbert Trenkle e Ernst Lohoff è uscito il libro Elf Attacken gegen die Arbeit, Konkret Literatur, 1999. Di Kurz e del gruppo Krisis esiste purtroppo molto poco di tradotto in italiano. Sono apparsi solo 2 testi di Kurz: L’onore perduto del lavoro, tre saggi sulla fine della modernità, Manifestolibri 1994; La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Manifestolibri 1997, e 1 articolo di Lohoff: La fine del proletariato come inizio della rivoluzione, pubblicato sulla rivista Invarianti in 2 puntate sui n.29 e 30, 1997. Adesso, per DeriveApprodi è uscito il Manifesto contro il lavoro, testo chiave dell’ultima produzione di Krisis. Fortunatamente si sta sempre più arricchendo la loro pagina web in italiano, dove si possono trovare ed eventualmente stampare testi finora inediti in Italia. (cf. http://www.krisis.org)

[3] Per cominciare a farsi un’idea delle tematiche citate, consiglierei le seguenti letture: A.Gorz La metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri, 1992; La strada del paradiso, ed.lavoro, 1994 (II); G.Aznar Lavorare meno lavorare tutti, Bollati Boringhieri, 1994; A.Mantenga, A.Tiddi Reddito di cittadinanza, Castelvecchi, 2000 (II), F.Berardi (Bifo) Lavoro zero, Castelvecchi, 1994; Autori vari Il giusto lavoro per un mondo più giusto (atti del convegno internazionale di Milano – 8/9 Luglio 1995), Punto rosso, 1995; a cura di A.Fumagalli e M.Lazzarato Tute bianche, DeriveApprodi, 1999 (qui in particolare le famose “12 tesi sul reddito di cittadinanza” di A.Fumagalli); Echange et projets La rivoluzione del tempo scelto, Franco Angeli, 1986; Pekka Himanen L’etica hacker, Feltrinelli 2001.

[4] La storia del Manifest in Italia è stata molto travagliata. Rifiutato praticamente da tutte le case editrici di sinistra, teoricamente destinatarie naturali di questo testo, è finalmente uscito con Derive/Approdi nel Marzo 2003. Il testo era già apparso con notevole successo in Francia (Manifeste contre le travail, éd Léo Scheer, 2002) dove è arrivato alla seconda edizione, e in Spagna (Manifesto contra el trabajo, Ed. Virus, 2002). Bisogna inoltre considerare il successo che questo testo ha avuto in Germania, dove è uscito con il titolo Manifest gegen die Arbeit nel 1999 come edizione autoprodotta da Krisis ed ha venduto sino ad ora più di 10.000 copie. D’ora in poi citerò nel testo di questo articolo il “Manifesto” mettendo tra parentesi la sigla M seguita dalla pagina dell’edizione italiana.

[5] Sul significato del termine “lavoro”, può essere utile consultare un ottimo articolo di Paolo Lago. In questo articolo, Paolo Lago offre un excursus sulla semantica dell’importante parola latina labor, dalla quale deriva il nostro “lavoro”, mettendone in rilievo i tratti legati al dolore e alla schiavitù presenti sin dall’origine. (cf: Die Bedeutung von “Labor”, in “Streifzüge”, Wien, 2/2002)

[6] “…in che cosa consiste l’alienazione del lavoro? Consiste prima di tutto nel fatto che il lavoro è esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e quindi nel suo lavoro egli non si afferma, ma si nega, non si sente soddisfatto, ma infelice, non sviluppa una libera energia fisica e spirituale, ma sfinisce il suo corpo e distrugge il suo spirito. Perciò l’operaio solo fuori dal lavoro si sente presso di sé; e si sente fuori di sé nel lavoro. È a casa propria se non lavora; e se lavora non è a casa propria. Il suo lavoro quindi non è volontario, ma costretto, è un lavoro forzato. Non è quindi il soddisfacimento di un bisogno, ma soltanto un mezzo per soddisfare bisogni estranei. La sua estraneità si rivela chiaramente nel fatto che non appena viene meno la coazione fisica o qualsiasi altra coazione, il lavoro viene fuggito come la peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si aliena, è un lavoro di sacrificio di se stessi, di mortificazione” (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, a cura di N.Bobbio, Einaudi 1973, p.72); “Il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata intesa come autoestraneazione dell’uomo e quindi come reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo; perciò come ritorno dell’uomo in sé, dell’uomo come essere sociale, cioè umano, ritorno completo, fatto cosciente, maturato entro tutta la ricchezza dello svolgimento storico sino ad oggi” (Marx, manoscritti…cit., p.110)

[7] In effetti può apparire quantomeno bizzarro parlare di fine del lavoro quanto la fabbrica invece ingloba sempre più lavoro e lavoratori, decentrandosi sia fuori dei confini nazionali che nella stessa zona “madre” (cf. Ad esempio la benetton, di Filippo Perazza, consultabile al seguente indirizzo web: http://www.intermarx.com/temi/benetton1.html)  In realtà questo non dimostra affatto che il lavoro c’è e ce n’è sempre più bisogno. Dimostra invece, oltre, ancora una volta, l’inutilità di un lavoro che produce a ciclo continuo cose più che altro inutili e dannose, che c’è bisogno di lavoro a basso costo, non di lavoro tout court. Anzi, il lavoro tout court, soprattutto se garantito, in quanto costo è evitato come la peste dal capitale, per il quale in questo senso è bene mantenere ora più che mai ad arte il famoso esercito di riserva di marxiana memoria, strumento sempre utile per tenere alto il ricatto del lavoro. Con questo esercito, come è risaputo, è possibile abbassare il costo del lavoro, e quindi non è mai conveniente, per il capitalista, raggiungere un livello di piena occupazione. Tuttavia, questo non incrina minimamente quello che credo – vi sia crisi strutturale o solo contingente del capitale o che altro – sia l’aspetto essenziale del discorso di Krisis: non è determinante che il lavoro ci sia o non ci sia, che venga sfruttato o non venga sfruttato. Bisogna in ogni caso cominciare a pensare in termini di uscita dalla società del lavoro. Ed oggi in particolar modo possiamo e dobbiamo farlo. “Possiamo” perché le condizioni ci permettono di farlo, ostacolando un tipo di produzione intensiva che non interessa a nessuno ed anzi nuoce a tutti i livelli, “dobbiamo” perché una occupazione “piena” come potrebbero proporre redivivi regimi a socialismo reale è inutile, assurda ed impossibile, se non al prezzo di riempire il mondo di merci che nessuno vuole e di sprecare il nostro tempo di vita in attività monotone, alienanti e in genere poco salutari. Un produzione adeguata di beni (per mangiare, per vestire, per viaggiare, per leggere, in una parola, per vivere) è possibile con un lavoro molto minore, sia in durata che in intensità, di quello attuale. Perché dunque affannarci ad ogni costo a produrre sempre di più? Il capitalismo lo esige ai fini della produzione del plus-valore, ma noi, una volta finito questo tormentoso regime, perché mai dovremmo continuare a farlo? La domanda che, qui, resta in sospeso è però: dobbiamo aspettare che finisca il capitalismo prima di pensare alla società liberata, organizzandola, oppure è proprio organizzando la liberazione, praticandola e così sottraendo potere al capitale che ci si avvia verso la fine del capitalismo, provocandola e promuovendola proprio col nostro costruire l'”altra” società?

[8] Mi rendo conto che parlare in questi termini di “libertà” significa mantenersi su un piano molto astratto. Dopo tutto, di libertà oggi parlano un po’ tutti, da Berlusconi a Toni Negri. Non è certo un caso che la stessa parola “liberismo” in qualche modo sia in relazione con questa aspirazione di “libertà” oggi onnipresente, almeno apparentemente. Anche liberalismo e libertario lo sono, come anche la parola liberazione, che in genere non si può proprio dire si connoti nel senso del liberismo. Insomma, c’è confusione sotto questa bandiera, tanto che varrebbe la pena di dire che, se si vuole parlarne, meglio uscire dal vago e cercare di delinearne meglio i tratti, altrimenti è preferibile un dignitoso silenzio. Tuttavia, a mio avviso non è possibile oggi fare a meno di avviarci una riflessione sopra. In tempi, cioè, dove persino Cuba torna ad essere un modello appetitoso da contrapporre a quello liberista, o dove si arriva quasi a rimpiangere i solidi regimi dell’est, ora re-interpretati come ex-roccaforti di garanzie oramai andate, una riflessione sul senso della libertà andrebbe proprio fatta.  Purtroppo posso qui solo accennare la tematica, sperando che prima o poi assurga al livello che merita. Per quanto mi riguarda, rimando a un testo che a mio avviso ha forti affinità con il Manifest di Krisis, quantomeno come tipo di progetto “profetizzante”, dove la libertà viene forse per la prima volta nella modernità tematizzata nel senso della “liberazione” (dell’uomo). Cf. F. Rosenzweig (hrsg. v.), Hegel, Hölderlin, Schelling Das älteste Systemprogramm des deutschen Idealismus. Ein handschriftlicher Fund (1914), ora in “Hegel Studien”, Beih. 9 (hrsg. v. R. Bubner), Bonn, Bouvier, 19822 (trad. it. di A. Massolo, Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco, in La storia della filosofia come problema, Firenze 1967). Per una interpretazione marxista (non ortodossa) e creativa del testo suddetto, consiglierei la lettura del bel testo di Antonio Negri La rivoluzione come preambolo, in Fabbriche del soggetto, XXI Secolo, Livorno 1987, pp.29-39

[9] “Reddito di esistenza” è un concetto sviluppato soprattutto da Andrea Fumagalli come approfondimento della questione del “reddito di cittadinanza”. Il problema si quest’ultimo era legato alla questione della “cittadinanza”,  concetto difficilmente definibile senza dar luogo ad una qualche limitazione, di natura etica, giuridica o geografica che sia, comunque capace di distinguere tra soggetti che hanno il diritto ad essere riconosciuti come “cittadini” e quelli che non lo hanno. Il “reddito di esistenza” spazza via questa impasse, ed estende il diritto a tutti in quanto viventi. C’è peraltro da dire che, con questo passaggio, ci avviciniamo molto a qualcosa che assomiglia decisamente al comunismo, ed è quindi con qualche ragione che i critici delle proposte sui redditi di cittadinanza o simili sostengono che, arrivati a un tal punto, si possa anche aspirare qualcosa di più di un misero reddituccio. Credo tuttavia che sia preferibile restare su un terreno più pragmatico, e che si debba continuare a parlare in termini di riconoscimento di reddito per tutti, senza anticipare improbabili eventi a tempi brevi. Questo riconoscimento avrebbe, a mio avviso, il salutare effetto di rappresentare una scossa consistente nei rapporti di forza tra capitale e popolazione, e con ogni probabilità anche un trampolino per ulteriori salti “liberatori”. Riporto comunque qui la definizione di reddito di esistenza che  Andrea Fumagalli preparò per l’incontro sul reddito di cittadinanza svoltosi a Milano al Ponte della Ghisolfa i giorni 31 Marzo e 1 Aprile 2001 “Il reddito di esistenza è una proposta di intervento economico universale e incondizionato e illimitato temporalmente, ovvero non discriminante nei confronti di alcuno, che concorre a definire, al pari della cittadinanza giuridica, la piena cittadinanza economica e sociale ed il pieno godimento delle libertà civili. Per reddito di esistenza si intende l’erogazione di una somma monetaria a scadenze regolare e perpetua, in grado di garantire una vita dignitosa, indipendentemente dalla prestazione lavorativa effettuata. Tale erogazione deve avere due caratteristiche fondanti: deve essere universale e incondizionata, deve cioè entrare nel novero dei diritti umani. In altri termini, il reddito d’esistenza va dato a tutti gli esseri umani in forma non discriminatoria (di sesso, razza, di religione, di reddito). E’ sufficiente, per averne diritto, il solo fatto di “esistere”. Non è sottoposto ad alcuna forma di vincolo o condizione (ovvero, non obbliga ad assumere particolari impegni e/o comportamenti). I due attributi – universale e incondizionato – sgombrano il tavolo da molti equivoci. Le proposte di tipo distributivo che fanno riferimento o alla condizione professionale o sono vincolate all’obbligo di assumere degli impegni di tipo contrattuale, anche se sganciati dalla prestazione lavorativa, sono discriminanti e non conformi allo status di “diritto inalienabile individuale”. Non è così per il reddito di esistenza. Trattandosi di un reddito indipendente dal salario, esso sostituisce tutte le forme di indennizzo derivanti dalla perdita del posto di lavoro (cassa integrazione, sussidi di disoccupazione, prepensionamenti, ecc.) ma non le altre forme di reddito già esistenti (pensioni, crediti alle famiglie, ecc.). Lo scopo del reddito di esistenza è quello di fornire una liquidità monetaria spendibile sul mercato finale delle merci così da consentire il pieno godimento dei diritti di cittadinanza e di socialità senza necessariamente essere inserite in un contesto gerarchizzato di produzione materiale e immateriale: da questo punto di vista il reddito di esistenza concorre a garantire la cittadinanza economica e sociale e concorre alla formazione della libertà “positiva”.”

Riguardo alla proposta di Gorz, apparentemente molto meno eversiva (ma a mio avviso invece altrettanto interessante di quella sul reddito d’esistenza), si tratta di una proposta di “doppia entrata” garantita per tutti dallo Stato il quale dovrebbe fornire, senza alcuna misura limitativa, le garanzie per una vita dignitosa e senza problemi economici ad ognuno. Questo “doppio assegno” in parte colmerebbe la mancanza di reddito dovuta alla strutturale mancanza di posti di lavoro propria, anche secondo Gorz, del nostro momento storico. Al tempo stesso, darebbe modo di avere una possibilità di lavoro per tutti, perché permetterebbe di organizzare la giusta ed equa ripartizione del lavoro necessario tra tutti i componenti della società. In pratica, la misura del “doppio assegno” dovrebbe funzionare da misura di “giustizia sociale” grazie alla quale meglio distribuire lavoro e ricchezza sociale. C’è da dire che Gorz tende forse a sottovalutare alcuni fattori importanti, come ad esempio “chi” dovrebbe operare un simile tentativo (più che “come”, visto che su quello qualche proposta viene pure avanzata), ma nell’insieme trovo personalmente apprezzabili gli spunti che ci dà. (cf. Metamorfosi del lavoro, cit, soprattutto la parte terza)

Le proposte del “denaro e/o servizi gratis” provengono invece, per lo più, da aree libertarie spagnole. L’aspetto che mi sembra più accattivante delle loro proposte è che – forse anche provocatoriamente –  non intendono assolutamente, almeno non in prima istanza, criticare il modello dell'”abbondanza” sbattuto in faccia proprio del sistema sociale occidentale a capitalismo avanzato, ma rivendicano anzi apertamente il diritto di appropriarsene. In pratica, il loro messaggio mi sembra sia “la ricchezza c’è, e dovete darcela anche a noi tutti”.  Per chi volesse saperne di più, consiglierei una visita nei loro siti  http://hubproject.org/ e http://www.eldinerogratis.com