05.10.2009 

Che cos’ è la decrescita

Uno sguardo disincantato su una proposta interessante

Massimo Maggini

Secondo un malcostume purtroppo sempre più invalso anche nella sinistra radicale, e non solo in quella istituzionale che di questa prassi ha ormai fatto uno stile di vita, si usa ultimamente parlare e discettare di questioni e problematiche che hanno una certa eco senza sapere veramente di cosa si stia parlando.
Spesso, per esempio, è sufficiente, per questo tipo di mentalità, sospettare che la casa editrice che pubblica certi testi non sia “politicamente corretta”, che l’autore abbia frequentazioni sospette oppure che la scena politica nella quale si è coinvolti possa non guardare di buon occhio la tematica per tranciare giudizi draconiani e irreversibili, giudizi che si basano per lo più su un “sentito dire” che viene ancora prima di una lettura superficiale e piena di pregiudizi – che comunque e’ il passo immediatamente successivo – per poi chiudere tagliando gordianamente la questione, senza mai veramente preoccuparsi di entrare nel merito e provare a conoscere proficuamente l’“oggetto” della contesa.
È il caso della decrescita.
Quello che vorrei provare a fare qui è il percorso inverso, cercare cioè di capire cosa essa ci può dire, in che modo può aiutare un discorso di sinistra a riprendere fiato e quali direzioni di lavoro e di elaborazione, sia teorica che pratica, può stimolare. Il testo di Latouche uscito in italia nel febbraio 2008, dal titolo “breve trattato sulla decrescita serena” (ed. bollati boringhieri), è sicuramente appropriato per un simile scopo.
Latouche, come molti sanno, è considerato a buon titolo il “padre putativo” della decrescita. Benché talvolta si possa tacciare il suo pensiero di ingenuità e forse utopismo, si deve riconoscere che l’impianto teorico su cui basa le sue riflessioni è quantomeno degno di nota ed attenzione.
Cerchiamo di capire dunque, proprio grazie a questo testo, di cosa stiamo parlando.
Per sbarrare il passo ad uno dei classici errori dovuti ad una interpretazione affrettata, è bene sin da subito chiarire che la decrescita non è il vaso di pandora, tanto meno un manuale di facile ed immediata applicazione, né un ricettario per la liberazione e la felicità collettiva. La decrescita è, dice Latouche, innanzitutto uno “slogan”, una “parola bomba”, il cui scopo è incrinare un orizzonte ritenuto a-problematico sia da destra che da sinistra: “la parola d’ordine della decrescita ha soprattutto lo scopo di sottolineare con forza la necessità dell’abbandono della crescita illimitata, obiettivo il cui motore è essenzialmente la ricerca del profitto da parte dei detentori del capitale” (p.17). L’obiettivo polemico dunque è la crescita capitalistica. Ma, subentra qui il primo dei punti critici: ci può essere una crescita non capitalistica? Ovvero, dire “crescita capitalistica” è una tautologia, oppure può darsi una crescita per esempio “socialista”, magari anche un po’ ecologista?
In realtà no, la crescita, secondo la prospettiva latouchiana e comunque decrescente, è sempre e solo capitalistica, così come lo “sviluppo”. Si ha “crescita”, cioè accumulo di prodotti e di valore, solo per soddisfare le folli esigenze del capitalismo, cioè della riduzione dell’esistente a merce e della sua messa a valore ai fini dell’accumulazione entro una coazione a ripetere che deve (dovrebbe) perpetuarsi all’infinito in una spirale poco virtuosa di accrescimento permanente. Fuori dall’ambito capitalistico, avrebbe senso mantenere tutto questo? Avrebbe senso cioè mantenere una produzione sfrenata di oggetti spesso per lo più inutili, con le conseguenze ambientali e sociali che ciò provoca? Oppure si potrebbe pensare ad una produzione più razionale che abbia di mira il soddisfacimento di bisogni non indotti e comunque la realizzazione della felicità delle persone più che non la valorizzazione monetaria della merce? Avrebbe ancora senso produrre milioni di elettrodomestici al giorno, o di automobili, o che altro, in numero ben superiore al necessario, con il solo scopo – e la necessità – di venderli per ricavarne profitto monetario?
Ovviamente no. La decrescita, quando critica la crescita e lo sviluppo, lo fa tenendo d’occhio la follia e l’inutilità di un sistema produttivo che causa per lo più dolore e distruzione, e ammiccando invece ad un sistema di produzione più ragionevole e rispettoso sia dell’ambiente che delle persone.
Questo in soldoni il senso ultimo della proposta decrescente, che è importante tener fermo per entrare correttamente nel suo spirito.
Uno degli equivoci più ricorrenti ritiene che parlare di decrescita oggi significhi condannare irreversibilmente i popoli del terzo mondo, o comunque quelli che noi occidentali sfruttiamo impietosamente per garantire il nostro meraviglioso standard di vita, ad una miseria definitiva e senza ritorno. Ovvero, che impedire una crescita economica a questi popoli sia condannarli in eterno all’ade dell’indigenza. Ma la decrescita si guarda bene dal predicare tutto ciò. La decrescita promuove invece un allontanamento, innanzitutto culturale prima che economico, dall’orizzonte della crescita, un distacco solo grazie al quale si apre l’effettiva possibilità anche per quei popoli oggi soggetti alla dominazione dell’occidente di inaugurare una loro strada di benessere e ricchezza. Un occidente non più capitalistico, che non ha più lo scopo primario della crescita economica costi quel che costi e soprattutto a spese dei paesi cosiddetti “terzi”, lascerebbe molti più margini e spiragli per il resto del mondo, con il quale magari aprire una collaborazione reale e duratura per fini diversi da quelli dell’accumulo e della ricerca del profitto.
Determinante è insomma l’uscita dall’orizzonte, soprattutto culturale, della crescita economica. Una “decrescita”, infatti, entro una società della crescita, sarebbe solo un immane disastro (come sta peraltro di fatto avvenendo oggi con la crisi capitalistica in corso). “Come non c’è niente di peggio di una società del lavoro senza lavoro, non c’è niente di peggio di una società della crescita in cui la crescita si rende latitante … Per tutte queste ragioni, la decrescita è concepibile soltanto all’interno di una ‘società della decrescita’, ovverosia nel quadro di un sistema basato su una logica diversa” (p.18).
In questo senso, la decrescita non solo non è assimilabile ad alcun “sviluppo sostenibile” o cose del genere, ma se ne distacca radicalmente. Lo “sviluppo” economico non può essere sostenibile né durevole né altro. Lo “sviluppo”, concetto molto ambiguo sostenuto a sua volta da concetti ancora più ambigui quali “progresso” o “modernità”, non è che l’altra faccia della crescita economica. Nessun popolo ha mai richiesto di “svilupparsi” (verso dove, poi, e perché?) così come non ha mai chiesto di “crescere”: ha solo subito l’imposizione di queste parole d’ordine dall’occidente. Un’economia che trova un suo equilibrio, che riesce a sfamare e a soddisfare un popolo, non ha alcuna necessità di “sviluppo”. La necessità subentra solo quando viene imposta come un Diktat da una forza e una cultura esterne. Al di là del giudizio che si possa dare su di esse, molte civiltà “avanzate”, per usare un termine decisamente improprio, sono durate millenni senza muoversi di un passo, e non per questo hanno sofferto particolarmente né si sono estinte per questa ragione. Molte di queste civiltà avevano i mezzi tecnici per dar vita ad una rivoluzione industriale ben prima di quella inglese: per esempio la civiltà greca o quella egizia, ma anche quelle che abitavano il continente americano prima dell’indesiderato e quanto mai nefasto arrivo dell’uomo moderno europeo. E tuttavia, queste civiltà si sono ben guardate dall’inaugurare un sistema folle e autodistruttivo come il nostro. Perché? Perché erano “inferiori” o “primitive”? Oppure? Qui non si tratta di fare un’apologia di quelle civiltà, che avevano comunque molti punti oscuri e aspetti quanto meno problematici, tuttavia una volta o l’altra dovranno pur essere prese sul serio certe questioni ed affrontate senza le insostenibili semplificazioni dettate dalla posteriore ideologia del progresso, che con la sua supponenza ha sino ad oggi impedito uno sguardo più chiaro e sereno sul rapporto con il passato.
Per tornare al nostro tema, ci basta qui cercare di chiarire per quanto possibile il contributo che può dare la decrescita ad un progetto di liberazione dal capitalismo. Una critica serrata allo “sviluppo”, sia esso sostenibile o meno, così come alle inquietanti ideologie che lo accompagnano, si rivela, in questo senso, determinante, e la decrescita fa di ciò un punto di forza: “parlare di un ‘altro’ sviluppo, come pure di un”altra’ crescita, sta ad indicare o una grande ingenuità o una grande ipocrisia” (pp.21-22). Il primo passo, invece, deve essere una “decolonizzazione dell’immaginario”: specificamente, questo significa uscita dall’orizzonte della fede nell’accumulazione illimitata. Un percorso non privo di problemi specie se, con Marx, riconosciamo che il capitalismo come sistema è essenzialmente un “soggetto automatico”, che trascina con sé i destini del mondo più che non essere esso stesso frutto di decisioni e scelte consapevoli. Però, è anche vero che non è possibile una trasformazione e una liberazione senza un cambio di rotta che non può che avvenire in modo consapevole e cosciente, e per questa ragione una “decolonizzazione dell’immaginario” assume un’importanza decisiva, specie nell’orizzonte di crisi capitalistica nel quale ci stiamo trovando ed entro il quale, con ogni probabilità, resteremo a lungo.
Si tratta, in altre parole, di promuovere un “cambiamento di paradigma”, che forse proprio la crisi può aiutarci ad affermare. Il rischio, ben presente, è che – mancando una esplicita messa in discussione del “soggetto automatico” – la rivolta decrescente si limiti ad una riforma interna al soggetto stesso, per il quale allora rappresenterebbe un aiuto insperato. Ma, a parte che lo stesso pensiero della decrescita contiene in sé gli anticorpi, se ben interpretato, per contrastare questa deriva (Latouche stesso insiste spesso, come abbiamo visto, sul fatto che la decrescita non è possibile in una società che resta ferma entro l’orizzonte della crescita), sta comunque a noi saper dirigere la critica e la conflittualità nella direzione giusta, e non è pensabile altrimenti, a meno che non si voglia insistere nel comodo e patetico gioco della delega e della “rappresentanza”, e si rinunci ancora una volta a prendere la nostra vita nelle nostre mani, passaggio questo forse molto più faticoso e duro – almeno all’inizio – ma di fatto ineludibile.
“Dunque il cambiamento di rotta oggi necessario non è del tipo realizzabile semplicemente con delle elezioni, mandando al potere un nuovo governo o votando per una nuova maggioranza. Ci vuole qualcosa di ben più radicale: né più né meno che una rivoluzione culturale, che porti ad una rifondazione della politica”. (pp.42-43)
Ma, in concreto, come dovrebbe attuarsi questa rivoluzione culturale? Dovrebbe assomigliare a quella della Cina di Mao? Oppure?
Niente di tutto questo. Prima di pensare ad una rivoluzione “strutturale”, si tratta di lavorare su un piano diverso, diciamo “più umano”: “l’altruismo dovrebbe prevalere sull’egoismo, la collaborazione sulla competizione sfrenata, il piacere del tempo libero e l’ethos del gioco sull’ossessione del lavoro, l’importanza della vita sociale sul consumo illimitato, il locale sul globale, l’autonomia sull’eteronomia, il gusto della bella opera sull’efficienza produttivistica, il ragionevole sul razionale, il relazionale sul materiale, ecc.”. (p.45)
Tutte cose queste, in realtà, già proprie delle culture popolari e ben diffuse fra la gente comune, ma negate e ostacolate dal quel “soggetto automatico” di cui abbiamo parlato poc’anzi. Tuttavia, forse proprio la crisi in corso può aiutare ad uscire da questo dominio alienante, e a ritrovare i “valori” (per usare una parola tipica proprio di questo soggetto e che credo dovremmo disimparare ad usare) che Latouche auspica, che possono anche diventare non solo una scelta ma proprio una necessità in un momento come questo.
Si tratta di operare dunque un passaggio non facile, anzi decisamente difficile, ma indispensabile. Un passaggio che implica anche la ricerca di un rapporto diverso con l’ambiente, e quindi anche una critica alla scienza matematico-sperimentale della natura, in vista di un suo depotenziamento e di una messa in discussione della sue pretese assolutistiche e universalistiche – il che non deve necessariamente significare consegnarci ad un mondo di superstizioni (che sono poi di fatto l’altra faccia dell’assolutismo scientista).
“Soprattutto, è necessario passare dalla fede nel dominio sulla natura alla ricerca di un inserimento armonioso nel mondo naturale. Sostituire l’atteggiamento del predatore con quello del giardiniere”. (p.46). Per realizzare una simile impresa, è necessario uscire dalla dimensione del tutto moderna che va dalle pretese galileiane per le quali ciò che non è misurabile né calcolabile, non è reale – quindi, secondo questo linguaggio, non esiste e non ha efficacia, non ha statuto di “verità” – alla sentenza hegeliana per la quale “tutto ciò che e’ razionale, è reale; tutto ciò che è reale, è razionale” – ovvero, solo tutto ciò che corrisponde ai criteri della ratio è reale, e viceversa. Un passo necessario per uscire al tempo stesso dall’orizzonte capitalistico. Il risultato non deve, è il caso di ripeterlo, per forza essere una caduta in un nuovo oscurantismo medievale (sempre poi che questo medioevo sia stato così “buio”). Si tratta piuttosto di ridimensionare l’ipertrofica presenza della verità scientifica, l’unica oggi come oggi deputata a giudicare sulle veridicità o meno dell’esistente e quindi ad avere efficacia e riconoscimento. Per fare un esempio, della luna si può dire che è il satellite della terra, ma anche quella cosa in cielo dove il bambino della poesia di Hebel “der Sommerabend” (la sera d’estate) vede passeggiare un omino in giacchetta o quella che ispira la poesia “alla luna” di Leopardi. Solo che un’asserzione “poetica” non ha valore di verità effettuale, al massimo è vista come un lazzo estetico, una “licenza” concessa al discorso che comunque poggia la sua verità unica, ultima e definitiva nell’imperiosa asserzione scientifica. Si tratta invece di far valere anche le istanze espresse proprio da un discorso come quello poetico, che decisamente non poggia su solide basi “scientifiche” ma non per questo non ha una sua ragione d’essere e addirittura una sua necessità per l’umano, necessità che ha bisogno di tornare ad essere riconosciuta e apprezzata come verità effettuale per la quotidianità e la vita delle persone. Lo stesso si potrebbe dire per le culture popolari, trattate in genere come espressione di relazioni primitive e ingenue tra uomini e terra, e i mestieri artigianali, altrettanto deprecati come inefficaci ed insufficienti rispetto alle esigenze di una civiltà che si basa su una cultura industriale capace di punte di produttività impensabili nell’antichità. Un tale ridimensionamento non significa però, diciamolo ancora una volta, rinuncia tout court alla scienza e al suo metodo, ma appunto “ridimensionamento”, ovvero riduzione delle sue pretese assolutistiche e “confinamento” entro l’ambito che le è proprio – così anche in realtà inverandola e rendendola più “misurata”, più a forma umana e legata ad altre istanze meno oggettivanti. Una ricerca della “misura”, dunque, a fronte della “hybris” dei moderni, ovvero quella “dismisura” propria della folle prometeica ambizione e delirante volontà di potenza dell’uomo moderno, tanto temute e aborrite dagli antichi e in generale da tutte le culture legate alla terra; ambizione e volontà che, unite ad un frenetico quanto insensato affaccendarsi e ad una oscena cupidigia, hanno partorito un autentico mostro – o forse più semplicemente il pidocchio di nietzschiana memoria. Dice Latouche, con termini forse un po’ troppo tecnici: “la hybris, la dismisura del signore e padrone della natura, ha preso il posto dell’antica saggezza dell’inserimento in un ambiente sfruttato in modo ragionevole”. (p.31-32) Uno “sfruttamento ragionevole”, per usare le parole latouchiane, che presuppone l’allontanamento dal paradigma economicista e produttivista dell’insaziabile assetto capitalistico del mondo, il quale piaccia o no si appoggia su uno scientismo che non a caso nasce insieme ad esso. Un economicismo che rende il mondo artificialmente “scarso” e quindi più facilmente manipolabile ai fini della mercificazione e dell’accumulo: “Come hanno perfettamente indicato Ivan Illich e Jean-Pierre Dupuy, l’economia trasforma l’abbondanza naturale in rarità con la creazione artificiale della mancanza e del bisogno attraverso l’appropriazione della natura e la sua mercificazione”. (p.47)
Un’autentica rivoluzione, dunque, anche se di una forgia forse ancora mai vista, una rivoluzione che poggia anche sulla fiducia nelle capacità dell’essere umano, una volta liberato dalla morsa del “soggetto automatico”, di riappropriarsi del proprio destino, ed anche in modo creativo. Una sfida, che ci lancia l’epoca stessa in cui viviamo, e che dobbiamo cercare di raccogliere e portare a compimento. “Per affrontare questa sfida, è lecito scommettere sulla grande ricchezza dell’invenzione sociale, una volta che la creatività e l’ingegnosità si siano liberate dalla cappa economicista e ‘produttivista’”. (p.78)
Anche il lavoro, in questo contesto, assume un’altra posizione. Una volta che non è più determinato dalle esigenze di accumulo e di sfruttamento proprie del capitalismo, il lavoro cambia diciamo così “statuto” e non divora più l’esistenza delle persone come accade oggi, lo si abbia o meno. Acquista invece un ruolo diverso, quello che di fatto più gli compete, e cioè di attività, non frenetica né totalitaria, che ha come fine la produzione di beni che siano utili all’umano e ne promuovano il benessere, ora valutato in termini di relazioni sociali e libertà invece che possesso e alienazione, e la felicità. La produzione sfrenata e senza senso di merci che nessuno di fatto ha mai chiesto e che per essere vendute necessitano di incessanti campagne pubblicitarie che ne inducano il bisogno, la devastazione di ambienti naturali e culture, l’assalto omicida a paesi e a popolazioni la cui unica colpa è quella di detenere risorse indispensabili al mantenimento della follia capitalistica, tutto questo viene a cadere in favore di una produzione sensata e con finalità completamente diverse. “La decrescita implica … al tempo stesso una riduzione quantitativa e una trasformazione qualitativa del lavoro”. (p.100) Tuttavia, anche questo passaggio è ben più complesso di quanto si possa immaginare. Non si tratta “semplicemente” di sovvertire l’ordine economico in vigore, di ridare il maltolto agli espropriati e mettere in piedi una più equa distribuzione dei beni. Sicuramente tutto questo, ma occorre anche altro. Occorre anche ritrovare il senso della vita, e la capacità di goderne. “Senza recuperare ‘l’incanto della vita’, la decrescita sarebbe votata al fallimento. È necessario ridare un senso al tempo liberato … La fuoriuscita dal sistema produttivista e lavorista attuale presuppone un’organizzazione sociale completamente differente, nella quale il tempo libero e il gioco vengono valorizzati accanto al lavoro, e le relazioni sociali prevalgono sulla produzione e il consumo di prodotti deperibili, inutili o addirittura nocivi… Per riprendere Hannah Arendt, non soltanto le due componenti rimosse della vita activa, l’opera dell’artigiano o dell’artista e l’azione propriamente politica, ritroverebbero il diritto di cittadinanza accanto al lavoro, ma la vita contemplativa stessa sarebbe riabilitata”. (p.103)

Dunque, alla luce di questo breve excursus la decrescita non sembra dunque essere quella ideologia retriva e tendenzialmente destrorsa che viene dipinta. Il rischio di una deriva indubbiamente c’è, soprattutto per quanto riguarda la possibilità che, annacquata e usata con astuzia, possa rappresentare una via d’uscita per il capitalismo di fronte alla crisi forse più forte che abbia mai dovuto affrontare. Per il capitalista, infatti, non potrebbe esserci scappatoia migliore del riuscire a convincere le popolazioni che una vita “sobria” e morigerata, guidata da criteri virtuosi di risparmio e povertà, sia la soluzione migliore in questi tempi oscuri, così riuscendo una volta di più a farla franca, e magari continuare a devastare mondi e popoli senza che emergano chiaramente e collettivamente le sue responsabilità. Sta però a noi evitare un simile epilogo, e la decrescita per come la descrive Latouche ce ne dà sicuramente i mezzi. “La nostra concezione della decrescita non né un impossibile ritorno all’indietro né un compromesso con il capitalismo. È un ‘superamento’ … della modernità. … La decrescita va necessariamente contro il capitalismo”. (p.109) Non si può infatti neanche concepire la “rivoluzione” della decrescita come risultato di politiche di riforma del sistema, lasciandolo però intatto nei suoi fondamenti. I passaggi che richiede la decrescita sono di fatto incompatibili con le esigenze di produzione e di accumulo del capitalismo. “Il programma di una politica nazionale di decrescita si presenta dunque come un paradosso. La realizzazione di proposte realistiche e ragionevoli ha poche speranze di potersi concretizzare, e ancor meno di avere successo, senza un sovvertimento totale dell’esistente. E a sua volta questo sovvertimento presuppone il cambiamento dell’immaginario che soltanto la prospettiva della realizzazione dell’utopia feconda di una società autonoma e conviviale può generare”. (pp.92-93) Un sovvertimento dell’immaginario che, abbiamo visto, richiede una messa in mora della modernità e dei suoi ideali di progresso e completa messa a disposizione del mondo e dei suoi abitanti. Ma, tranquilli, non si tratta di un rifiuto tout court che apre ad un mondo di superstizioni e di paure, quanto un “inveramento” degli ideali stessi della modernità. “D’altra parte, la critica della modernità non implica il suo rifiuto puro e semplice, ma piuttosto il suo superamento. È esattamente in nome del progetto di emancipazione dei Lumi e della costruzione di una società autonoma che noi possiamo denunciare il fallimento della modernità, di fronte all’eteronomia oggi imperante della dittatura dei mercati finanziari”. (p.122)

Con una paradossale realizzazione di quegli ideali che la decrescita, di fatto, dice di combattere, Latouche ci consegna un pensiero che ritengo meriti considerazione e rispetto. I tempi veramente bui che stiamo attraversando richiedono una spiegazione e una via d’uscita che abbiano un respiro diverso e sappiano indicare verso possibilità forse molto utopiche e remote, tuttavia seducenti e coinvolgenti. Se troveranno mai realizzazione, non sta a noi dirlo. Una cosa è certa: non sarà un semplice supplicare i nostri governanti o imprenditori o chi per loro a realizzarle: non si è mai visto infatti che la causa del problema sia anche il suo rimedio. Coloro che hanno contribuito in maniera decisiva a portarci sull’orlo dell’abisso, non possono essere i nostri referenti, se non polemici, né coloro a cui rivolgerci nella speranza che ci conducano fuori dalla misera che loro stessi hanno in gran parte determinato. A noi piuttosto spetta il compito – diciamo anche questo ancora una volta, perché mai come oggi ripetere fa bene – di provarci in prima persona, di inaugurare un nuovo autonomo percorso di liberazione dal capitalismo che porti, si spera, definitivamente fuori da questo sistema criminale e folle, e apra verso una nuova era, quella in cui l’uomo, per riprendere una famosa metafora di Marx, si alzi in piedi e cominci finalmente a camminare con le sue gambe. Si tratta in un certo qual modo di fare una scommessa, anch’essa forse paradossale come quella di Pascal, ma quanto mai necessaria. In fondo, oggi più che mai quello che ancora abbiamo da perdere sono le nostre catene, e un mondo, invece, da guadagnare. 🙂